Dagli anni ’70, la musica del futuro. Kraftwerk: tra robots, metropoli, laboratori spaziali e modelle (di Alessandro Di Giuseppe)

Il ‘900 è stato il secolo delle svolte, della fine delle grandi ideologie, delle quattro grandi guerre ( La Prima Guerra Mondiale, La Seconda Guerra Mondiale, La Guerra in Vietnam e La Guerra Del Golfo), della metaletteratura, delle esposizioni universali, dei grandi libri, delle rivolte studentesche, di quelle musicali, di quelle cinematografiche e di quelle civili. Nel ‘900 sono finite repubbliche, rinate repubbliche, formate democrazie, finite democrazie, compiuti attentati, cambiati papi, tessuti grandi patti internazionali, sono nati stati, finite alleanze, uscito sul mercato Micheal Jackson ed è persino caduto il muro di Berlino ( e pensare che qualcuno l’ha definito “Il Secolo Breve”!). Adesso, fare tutta la storia del ‘900 sarebbe impossibile per me: non sono neanche laureato al DAMS (“che studi?” “cinema, nonna, cinema”), figuratevi se ho le competenze necessarie ad affrontare un discorso sulla storia. Quello che mi preme dire, e che può esserci vagamente utile, è che nel ‘900, più precisamente nel 1926, ancora più precisamente il 5 aprile del 1926, negli Stati Uniti d’America, Hugo Gernsback, un signore magro, vestito sempre in modo elegante e con una leggere stempiatura sulla fronte, fa uscire un rivista che decide di chiamare “Amazing Stories”. Ai più attenti (e anche un po’ nerd) di voi saranno sicuramente brillati gli occhi. Per tutti gli altri, lo spiegone di Alessandro: “Amazing Stories” era una rivista “pulp”, una di quelle che, prima dell’arrivo della tecnologia e dei blog, pubblicava storie e romanzi d’appendice. Certo, non era la prima e non sarà l’ultima (pensiamo soltanto che, per tutto l’800, anche scrittori poi divenuti dei classici, si cimentavano e pubblicavano sui feuilleton. Era la cosiddetta “Letteratura alimentare”. Citando Balzac: “Un panino così glielo vogliamo dare al mese?”), ma questa è importantissima. Perché? Perché, con la nascita e la pubblicazione del primo numero di questa rivista, nasce un genere: LA FANTASCIENZA!!!

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Sulla rivista, che ospiterà pagina e pagine di storie fantastiche, fantascientifiche ed articoli di divulgazione scientifica, scriveranno, tra gli altri, anche H.G. Wells (l’autore de “La Guerra dei Mondi”: il romanzo, trasformato in radiodramma, con cui Orson Welles spaventò l’America ed ottenne un contratto ad Hollywood. Se non sai chi sia Orson Welles, vai IMMEDIATAMENTE! a cercarti qualche informazione e guarda, almeno una decina di volte, i seguenti film: “Quarto Potere”, “L’infernale Quinlan”, “L’orgoglio degli Amberson” e “La signora di Shangai”) e Isaac Asimov. La fantascienza, genere di largo consumo ed immediato successo, sbarcò quindi anche al cinema arrivando a vette immense (vedi “2001: Odissea nello spazio” e “Solaris”) e si trasformò anche in un genere degno di essere pubblicato su volumi unici, con copertine rigide, editi da editori con le palle e distribuiti in tutto il globo terracqueo fino a diventare, ad oggi, una specie di piccolo mondo a sé stante, una specie di universo parallelo da creare, in cui rifugiarsi e in cui vivere. Ma anche un punto di vista privilegiato per poter fare un’analisi politica (“1984” di George Orwell o “Fahrenheit 451” di Ray Bradbury) e sociale (“L’Isola” o “Il mondo nuovo” di Aldous Huxley ) sul mondo e l’attualità che ci circonda. Bene, eravamo rimasti al 5 aprile 1926, in America. Adesso salite sulla vostra Delorean, chiudete le porte e allacciatevi bene le cinture. Inserite la chiave nel quadro e, sul tastierino del viaggio temporale impostate Germania: 1978. Adesso preparatevi a partire. Perché? Perché adesso inizia la recensione del disco

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Titolo: “The Man Machine”

Titolo Originale: “Die Mensch-Maschine”

Anno: 1978

Band: Kraftwerk

Etichetta: Kling Klang

Tracklist (edizione inglese):

1) The Robots
2) Spacelab
3) Metropolis
4) The Model
5) Neon Lights
6) The Man Machine

 

 

Cosa dire per definire questo disco? Io lo adoro! Vi basta? No, vabbé, cerchiamo di essere seri. “The Man Machine” è il settimo disco della band(? collettivo? crew? come si dice quando c’è un gruppo di persone che fa musica con strumenti digitali/elettronici?) tedesca Kraftwerk. I Kraftwerk (il nome della band, tradotto in italiano, vuol dire “Centrale Elettrica”. Ebbene sì, c’è qualcuno che si chiama centrale elettrica ma non fa canzoni del cazzo pseudo depresse per attirare fighe emo che, tra un paio d’anni, si iscriveranno a giurisprudenza e se ne sbatteranno del loro passato da finto depresse) si formano in Germania, nel 1970. Progetto nato dalla passione di Ralf Hütter e Florian Schneider (unico membro stabile e fisso della band, dalla nascita fino ai giorni nostri), due ex studenti del conservatorio di Düsseldorf, è diventato, nel giro di qualche anno, una delle realtà musicale elettroniche più interessanti del panorama mondiale. Riuscendo a coniugare futurismo, sperimentazione, avanguardismo e cultura popolare, i Kraftwerk sono diventati dei punti fermi, dei monoliti a cui ispirarsi (pensate che anche i Rammstein, shock band industrial metal, ha fatto una cover di una loro canzone). Ma parliamo del disco. Il “The Man Machine” segna una svolta nella band: è infatti il primo disco in cui compare, nella formazione ufficiale, suonando sintetizzatore e percussioni elettriche, il musicista Karl Bartos.

Un disco importante anche per quanto riguarda la grafica di copertina: la copertina infatti, famosissima e “omaggiata” per i decenni a venire, è nata dalla mente e dal talento di Günther Fröhling e Karl Klefisch (rispettivamente fotografo e grafico di copertina) e sono ispirate allo stile grafico dell’avanguardia russa di El Lissitzky

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Per quanto riguarda lo stile, grandi novità in casa Kraftwerk: alla già amata e sperimentata musica elettronica, si aggiunge l’elettropop di una ballata orecchiabile come “The Model”. La struttura del disco ricorda quella di un concept album fatto, però, di Tableaux Vivant: si passa dai Robots che si raccontano, ad una stazione spaziale che sembra orbitare, placida e un po’ annoiata, attorno alla terra, poi l’obiettivo scende sulla terra in un brano ritmato (ispirato al film di Lang) che è Metropolis. E qui il viaggio cambia: si ha l’idea di salire su una strana macchina del futuro, una specie di taxi guidato da un androide, ed arrivare ad una sfilata in cui una modella, la più bella modella della galassia, si sta esibendo. L’album continua: usciamo dal teatro, tutto è illuminato, sembra in un’oscurità tenue, da fine nottata, dalle luci elettriche e alogene dei lampioni. Il disco/viaggio si conclude con “The Man Machine”: brano dal ritmo meccanico, sembra di essere in una fabbrica e di sentire i pistoni che sfregano e pestano, sembra di sentire gli ingranaggi di un cyborg, ben oliati, che si sdraia sul suo letto criogenico e si spegne. Ed è forse questo che vuole dirci il disco: la metropoli ci meccanizza. Non è un caso, in questa ottica, che sia citato il Lang di quel capolavoro assoluto che è “Metropolis”

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In definitiva, un disco da ascoltare e riascoltare

Voto: 8