Il Supermercato (un racconto di Stefano Di Giuseppe)

Lawrence stava seduto dietro il bancone, il caffè era finito ed erano solo le tre del mattino. Mentre con una mano si reggeva la testa, con l’altra prese l’mp3 che aveva nei jeans e si infilò gli auricolari. Serviva qualcosa per tenersi svegli. Schiacciò il tasto play e, dopo qualche secondo, il suono del rullante di una batteria che saltava in aria e delle urla incomprensibili incominciarono a fare i pezzi i suoi timpani. “The cat is under the hammer” dei Learning English: poesia pura! Fuori dal negozio era ancora notte e non si sarebbe visto nessuno: nessuno viene alle tre del mattino in un supermercato. Specialmente se è nel deserto. Molti dei suoi amici, tutti fighetti, figli di papà che giocano a fare gli alternativi, i no global piuttosto che lavorare per un ex barone della droga che ha deciso, per far quadrare il bilancio agli agenti delle tasse, di aprire una catena di negozi in tutto lo Stato,avrebbero preferito spararsi in testa. A Lawrence non fregava niente. E non perché fosse diverso dai suoi amici, aveva solo preso scelte diverse per motivi “logistici”. Anche lui era un figlio di papà, ma non di un papà qualunque: Lui era il figlio di Padre Claud, l’uomo a capo della nuova confessione di nostro Signore, il Martin Luthero del Ventunesimo secolo che aveva creato “l’unica vera banca” per gli “unici veri fedeli”,il tipo sulle spillette elettorali, quello delle case di produzione, il fondatore delle leghe per la decenza, l’editore delle “Uniche vere” riviste per i fedeli. Insomma il tipo che aveva sbattuto Lawrence fuori di casa il giorno che si presentò a messa con gli occhi rossi, fame chimica e movimenti degni di un bradipo anestetizzato. Non era stato buttato fuori di casa proprio per quello, ma se non si fosse presentato così non sarebbe successo. Non c’entrava nulla il fatto di essersi accasciato per terra durante l’omelia del prete , bestemmiando a pieni polmoni mentre cercava di mangiarsi il foglietto delle letture del giorno, la situazione sarebbe stata ancora recuperabile se non fosse stato ripreso dalle telecamere di Heavan’s Channel. Aveva fatto fare una figura di merda a suo padre in mondovisione, gli aveva fatto perdere le elezioni e il posto di comando nella religione che aveva fondato. Un po’ di quel perdono divino avrebbe fatto comodo in quel momento. Purtroppo non era era arrivato. Quel perdono non arrivava mai quando serviva, lo aveva imparato all’oratorio, quando i ragazzi più grandi lo picchiavano perché, per colpa di suo padre che aveva convertito i loro genitori, non potevano più fare quello che volevano. Oltre ai pestaggi Lawrence ricordava, degli oratori, le aule pulite e perfettamente illuminate dove ragazzini in piena crisi ormonale facevano attenzione a non farsi scoprire mentre si masturbavano guardavano le compagne di classe. Quando finì in mezzo alla strada aveva poco più di sedici anni, in TV dicevano che il padre lo aveva mandato a studiare in Europa. Le uniche cose vagamente europee che aveva visto in tutta la sua vita erano la cannabis olandese, la cocaina londinese e l’anfetamina dell’est europa. Ora Lawrence fissava, con sguardo stanco, gli scaffali pieni di riviste per casalinghe disperate e malati di complottismo. Si stropicciò gli occhi, il rullo pesante di una batteria annunciava la fine della canzone che stava ascoltando, ora era più sveglio. Aveva vent’anni ed era in una centro di disintossicazione quando Abe ,il manager della catena di negozi Righteous, lo contattò per offrirgli un posto di lavoro. Avevano scelto il suo profilo tra più di duecento pazienti del Centro per dargli la possibilità di reintegrarsi nella società grazie ai suoi progressi nella disintossicazione. La verità era che una volta, quando il nome di Abe non era Abe ma Juanito Carlos Escobar, qualcuno gli aveva parlato di un ragazzetto molto collaborativo che faceva il pusher come nessuno in circolazione. Ai tempi, per pagarlo dovevi avere le cose più pesanti in circolazione, ma ora che si era ripulito era tutta un’altra storia. Ad Abe serviva un pusher con cui lavorare. A Lawrence una modo per uscire. Non ci misero molto a trovare un accordo. Fu assunto come cassiere per il turno di notte dalle undici e mezza di sera fino alle sette e mezza del mattino. In più, durante il suo turno, durante il quale le telecamere non registravano, aiutava a “risolvere le ultime pratiche burocratiche” che Abe aveva ricevuto dal suo capo. Erano passati quattro anni e Lawrence spacciava Ecstasy, rivendendola a tre volte il prezzo di mercato, ai suoi amici alternativi che lo sfottevano mentre lo pagavano. A loro interessava solo poter fare bella figura davanti agli altri e a Lawrence non dispiaceva intascare due terzi del ricavato. Quando non spacciava,poi, aveva sempre i soldi per andare ai festival e ai concerti che capitavano in zona. Di solito ci andava durante il turno. Nessuno si era mai lamentato. Quella sera, però, Lawrence aveva deciso di rimanere in negozio. Non perché avesse voglia di lavorare, nessun individuo sano di mente vuole stare seduto dietro un bancone come un cretino ad aspettare che il turno finisca, ma aveva due costole inclinate ed un ematoma sul ginocchio particolarmente fastidioso. Quella sera Lawrence avrebbe cercato di ricostruire quello che era successo al concerto della notte precedente. I ricordi erano frammenti fumosi che si alternavano nella sua testa senza seguire un ordine logico. Ci mise un po’ a riorganizzare tutto ma alla fine riuscì a ricordare: la notte precedente era andato al concerto dei Blasfemik ed era successo qualcosa. Il palco, che somigliava ad un altare celtico, aveva preso fuoco mentre gli amplificatori sputavano musica metal e sangue finto sul pubblico. Mentre tutti erano intenti a dimenarsi o ad urlare per osannare il gruppo o bestemmiare divinità per colpa dei calci e dei pugni, Lawrence si era accorto che una biondina aveva gli occhi attaccati a lui. All’inizio non ci aveva dato importanza ma poi la tipa si era avvicinata e gli aveva sussurrato qualcosa nelle orecchie. A quel punto Lawrence, seguendo la ragazza verso i bagni chimici- l’aveva seguito slacciandosi lentamente e discretamente la cintura dei pantaloni-, aveva incominciato ad osservarla: aveva degli stivaletti neri con il tacco basso ,un paio di jeans strappati ed una maglietta attillata dei Blasfemik. Il nome della band prendeva risalto grazie alla quinta abbondante della tipa. Il tutto si stava per concludere in una bellissima serata passata in buona compagnia, con della buona musica di sottofondo, ma, una volta entrati nel bagno chimico,lei aveva tirato la riproduzione 1 :1 di quello che poteva essere la versione in carne umana della canna di una 44 magnum per poi enunciare, in poche frasi,il suo piano per la serata. Quell’ermafrodito era più muscoloso di quello che lasciasse intravedere. In tutti i sensi. Poi, all’improvviso, tutto era diventato nero. Lawrence si era svegliato in quella che sarebbe dovuta essere una tenda del pronto soccorso improvvisata. Intorno a lui c’erano un centinaio di persone che urlavano o piangevano o entrambe le cose insieme. Poco dopo aver appurato di avere ancora tutti i suoi orifizi intatti realizzò di essersi messo a sedere sulla brandina dove era stato disteso. Qualche minuto dopo uno dei membri dello staff, un uomo grasso, sudaticcio e con il riporto, gli spiegò quello che era successo: Il BRHADEN, la mascotte dei Blasfemik, mentre roteava su se stessa durante un assolo, aveva perso uno dei suoi tentacoli a forma di palla da demolizione. Questo, poi, si era andato a schiantare proprio nella zona in cui Lawrence e altri poveri sfigati erano in fila per il cesso. Accennò anche al fatto che la sua “amica” non ce l’aveva fatta e gli indicò la brandina alla sua sinistra dove un telo nero copriva la carcassa spiaccicata del transessuale che aveva tentato di abusare di lui. Poi gli avevano fatto firmare un blocchetto dove c’era scritto che non avrebbe fatto causa alla band e qualcuno lo aveva riaccompagnato in negozio prima della fine del turno. Mentre pensava a tutto questo, le porte del negozio si aprirono e un vecchietto con i capelli bianchi e impomatati all’indietro entrò in negozio. Il suo sguardo era penetrante e si muoveva con troppa scioltezza per gli anni che dimostrava . Forse era uno di quei malati di fitness e jogging che passano la vita a tenersi in forma e a mangiare sano per poi dimenticare che la vecchiaia arriva per tutti. Indossava un completo elegante, tutto nero, che stonava un po’ con l’anello che aveva alla mano sinistra su cui, in rilievo, spiccava un teschio incoronato con gli occhi rossi. Il vecchio si avvicinò con molta calma agli scaffali delle sigarette. Lawrence ne aveva conosciuti molti così. Sicuramente avrebbe guardato tutti quei pacchetti e avrebbe sorriso pensando agli sfigati in sovrappeso che le fumavano per sfogarsi. Lui non ne aveva sicuramente bisogno: a lui bastava mettersi la sua tuta attillata, andare in giro a correre sbattendo in faccia a tutti quanto fosse in salute e felice. Il vecchio dal vestito elegante allungò la mano verso un pacchetto di sigarette e si avvicinò alla cassa con la stessa tranquillità con cui era entrato. Una leggera ombra di disappunto si allungò sul volto di Lawrence: questo non se lo aspettava. Guardò le sigarette sul bancone: erano “D.O.A”., le sigarette più dure e pestilenziali in commercio, legalmente e illegalmente. Qualche settimana prima, su una di quelle riviste per casalinghe disperate, era apparso un titolo: “DODICENNE ASMATICO SI TOGLIE LA VITA FUMANDO TRE PACCHETTI DI “D.O.A.” MORBIDE!”. Tutte la associazioni salutiste avevano tentato di farne cessare la produzione in ogni modo: campagne pubblicitarie contro il fumo, scandali riguardanti i dirigenti, blitz degli agenti sanitari e piccole autobombe davanti ai negozi che le vendevano. Non era cambiato niente: il tipo a capo delle D.O.A. era sempre riuscito a cavarsela e ad aumentare le vendite al punto da far rinunciare qualsiasi difensore della salute. Lawrence si era limitato ad apostrofare il tipo con un “Ehi vecchio, questa roba uccide”. Il vecchietto con i capelli impomatati gli aveva sorriso in un modo da far gelare il sangue e aveva risposto :”Ragazzo, io uccido”. Poi si era messo una sigaretta in bocca ed era uscito dal negozio. Appena fuori una nebbia  lo avvolse in pochi secondi. Prima che la sua sagoma scomparisse Lawrence notò un punto più scuro dentro la nebbia. Ricordava vagamente la sagoma dello scheletro di un angelo. Il primo pensiero di Lawrence fu: “Da dove cazzo è uscita la nebbia?”. Si sentì il suono di una tromba poi i vetri del negozio scoppiarono e lui venne scaraventato via dal bancone. Atterrò sugli scaffali di riviste che aveva davanti e, prima di svenire per il dolore, guardò fuori dalle vetrine rotte. Erano le tre del mattino ma fuori il mondo sembrava illuminato come se ci fossero sette soli.

“Il Signore, alla voce dell’arcangelo e al suono della tromba di Dio, discenderà dal cielo.E prima risorgeranno i morti in Cristo e quindi noi, ancora vivi, saremo rapiti con loro…” (1 Tessalonicesi 4,16-17)