“La sua testa su un vassoio d’argento: questo è quello che desidero”. Carmelo Bene e la sua “Salomè” lisergica (di Alessandro Di Giuseppe)

Nel 1969, uno dei miei registi italiani preferiti, riuscì finalmente a girare un film che aveva in mente da tanto tempo. Era un film in costume, che prendeva spunto da brutali fatti di cronaca realmente accaduti. Nel cast, insieme ad altri interpreti più o meno sconosciuti, recitava una parte da protagonista anche Tomas Milian. Per chi non sa chi fosse, Tomas Milian è un attore trapiantato in Italia, amatissimo caratterista e faccia e corpo- la voce era di Ferruccio Amendola- di “Er Monnezza”: una strana mutazione, completamente comica e grottesca, di un investigatore privato. La particolarità di “Er Monnezza”? Parlava in romanaccio e veniva dai rioni popolari. Era, per così dire, un eroe comico e sottoproletario. Comunque, tornando a noi, dicevamo che nel 1969 esce questo film. Il titolo: “Beatrice Cenci”. Il regista: Lucio Fulci. Il film narra della vicenda vera di Beatrice Cenci, figlia di un vecchio e decaduto nobile, che, dopo aver subito dal padre tutta una serie di violenze-anche di tipo sessuale- e di abusi, decide, insieme al ragazzo di cui è innamorata, di uccidere il padre e di far sembrare tutto un incidente. Naturalmente non riusciranno a convincere nessuno ed un destino crudele ed assurdo si abbatterà su di loro. Ma perché vi sto raccontando la trama di questo film? Perché un critico, cioè, non era proprio un critico: era uno scrittore e giornalista che scriveva anche di cinema, incontrò il regista a Roma- Fulci aveva una vita mondana e sociale molto ma molto variegata- e gli spiegò quali fossero, secondo lui, i problemi del film. Ah, già, mi sono dimenticato di dirvi un passaggio importante: il regista assistette alla prima del film con il produttore e, alla fine della proiezione, mentre scorrevano i titoli di coda, il pubblico inizia a gridare contro lo schermo, ad urlare che il regista doveva morire e che quella era una porcheria. Dicevo, questo critico gli disse che il problema del film, era che parlava di incesto ed il pubblico italiano, che faceva finta di essere alternativo ma in realtà era un pubblico borghese e benpensante, non aveva voglia di vedere l’incesto. Adesso, tutto potrebbe sembrare normale, ma non lo è. Perché? Beh, perché quel film era uno dei progetti più ambiziosi del regista e perché quel critico così acuto- e benpensante anche lui- si chiamava Alberto Moravia. Sì, avete capito bene: Alberto Moravia. Riuscireste mai a crederci: l’autore de “Gli Indifferenti”, un libro che fa delle noia, della sottomissione e del non senso anche del sesso (il secondo marito della madre di famiglia cerca e riesce ad andare a letto con la figlia maggiore) uno stendardo, si scandalizzò per “Beatrice Cenci”. Ma questa era un critica che poteva finire lì. E invece no: nel 1972, un altro genio del cinema e del teatro, realizzò un film. Moravia lo esaltò. In problema? In sottotesto, in questo film, era nascosta la stessa tematica che valse a Fulci la condanna a morte da parte del pubblico. Di cosa sto parlando? Prendi un respiro profondo, chiudi gli occhi, e preparati ad entrare in una realtà alternativa, drogata, brillante e crudele. Preparati ad entrare alla corte di Re Erode:

Salomè

Titolo: Salomè

Regia: Carmelo Bene

Sceneggiatura: Carmelo Bene

Produttore: Carmelo Bene

Anno: 1972

CAST: Carmelo Bene, Lydia Mancinelli, Alfiero Vincenti, Franco Leo, Donyale Luna,Veruschka, Giovanni Davoli, Piero Vida, Dakkar

 

TRAMA:

Alla corte del re Erode, tetrarca di Galilea (Carmelo Bene) tutti fanno festa bevendo, mangiando e facendo sesso. Tutti però sono ammaliati da Salomè (Donyale Luna), figlia di Erodiade (Lydia Mancinelli): la figliastra di re Erode. Figliastra perché la figlia che Erodiade ha fatto con suo marito, il fratello di re Erode. La festa prosegue fino a quando un profeta, Giovanni Battista (Giovanni Davoli) inizia la sua feroce predicazione contro Salomè. Re Erode si informa e capisce che lui è uno dei discepoli di Cristo (Franco Leo). Salomè è turbata dalle parole di Giovanni Battista ed accetta di danzare per Re Erode ad una sola condizione, che lui esaudisca il suo desiderio: avere la testa di Giovanni Battista servita su un piatto d’argento.

 

Trasposizione cinematografica della ben nota tragedia, la “Salomè” appunto, questo film di Carmelo Bene si presenta come un’opera visionaria, sperimentale e complessa. Il suo gioco/lavoro/vita sul teatro-ricordiamo che inizia la sua carriera negli anni ’60 con quello strano spettacolo, estremamente provocatorio e basato sull’improvvisazione continua, che era “Addio Porco!”- guida le scelte di regia e di messa in scena. Il film, infatti, è una specie di amalgama continua di linguaggi: dall’animazione iniziale, alle avanguardie worholiane degli anni ’70 (non dobbiamo dimenticare che uno delle attrici, la strana e conturbante Salomè, è interpretata da Donyale Luna: una delle muse di Andy Warhol), alla storia del teatro sperimentale, a quelle del teatro classico a quelle della video arte. Un mosaico di linguaggi e di stili diversi che si intrecciano, si contaminano e ne creano un altro. Potrebbe sembrare l’inizio di una nuova tendenza, ma qui c’è l’abisso: il cinema di Carmelo Bene, concentrato in pochi anni e reso (in)visibile dalla potenza visiva, ha percorso una strada completamente personale e non percorribile di nuovo.

Erode

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tornando agli aspetti più attinenti alla trama, la vicenda si svolge tutta in un interno, in quella strana corte di Erode dove lui, Carmelo Bene, troneggia, tronfio e lascivo, annoiato e disilluso (qui troviamo gli echi e gli strascichi dell’Amleto di cui, da qui a pochi anni, rinventerà la storia mischiando Shakespeare a Laforgue a Carmelo Bene a Freud a Jung a Marcuse) nei piaceri mondani. Salomè, è una donna calva, di colore. Il tutto è immerso in un’atmosfera allucinogena e di sogno, di incubo. Il Cristo ha le fattezze di un demonio vampiresco che aleggia, come una presenza satanica, sulle acqua di quella grande e vasta piscina in cui tutti banchettano. Le luci al neon, la nudità, le ballerine che si mostrano nelle loro forme e nei loro sessi, dischiusi e inaccessibili come gli oracoli della chiesa (permettetemi questa piccola e “dolce” velleità blasfema), rendono il film un’esperienza impossibile da comprendere e straniante. Giovanni il Battista, inoltre, predica in dialetto calabrese, il Cristo nudo si crocifigge da solo in una strana danza di morte. La danza dei sette veli è suggerita e il clou della vicenda, la decapitazione, non è mostrata. Assurda la sequenza finale: lo strano monologo in cui Erode, stremato dalla danza, dalla libidine e dal vino, viene letteralmente scuoiato da Salomè

Cristo

Un film blasfemo ed eccessivo, sboccato e poetico, straniante ed intenso. I contrappunti musicali che lo accompagnano, sono inadeguati ed eccessivi.

Cos’altro aggiungere? Bazin si lamentava che, nei film che uscivano negli anni ’50, ci fossero soltanto cinque minuti di cinema puro. Questo è cinema puro perché nel sogno, nell’allucinazione, affonda le sue radici

 

Voto: 10 e lode