“Se le tocco qui le fa male?” “Sì. Per favore, CONTINUI!” “Sick: the life and death of Bob Flanagan, Supermasochist” (di Alessandro Di Giuseppe)

Immaginate di essere in un commedy club.
Siete lì, seduti con i vostri amici, avete già guardato i due o tre comici-bravini, qualche battuta molto azzeccata, ma si può fare molto meglio- che facevano l’apertura e poi entra il presentatore della serata, fa una battuta ed introduce lo stand up comedian che vi intratterrà per la prossima ora e un quarto. Parte un applauso, le luci della platea si abbassano, quelle del palco si spengono e quando si riaccendono, dopo qualche minuto, c’è un tipo con i capelli corti, lo sguardo un po’ allampanato ed un tubicino che gli entra nel naso. Voi non ci fate caso ma notate che il grande tendone rosso che faceva da sfondo agli altri comici si è aperto e mostra una scenografia minimale e strana: una specie di tavolo da autopsia, una gogna, un paio di televisori, una struttura simile a quelle che si usavano per impiccare le persone. Non ci fate caso perché voi siete persone di mondo e sapete che, quando andate a vedere uno spettacolo di stand up commedy, vi potete aspettare di tutto.
Il comico parte con il suo monologo facendo qualche battuta d’ingresso e poi inizia a spararle grosse e cattive-diciamo che è un misto tra Louis C.K e Doug Stanhope. Voi vi divertite. Ad un certo punto, il comico, mentre fa una battuta cattivissima sulla fibrosi cistica, si toglie la maglietta e rimane a petto nudo. Vi accorgete subito di due cose: entrambi i capezzoli sono forati da due grossi piercing, e  il tubicino che aveva nel naso gli entra direttamente nel petto.
A questo punto iniziate a sentirvi un po’ in imbarazzo ma ci sono i vostri amici e non potete farvi vedere a disagio. Lo spettacolo continua con altre battute cattivissime sulla malattia e poi il comico tira fuori un quadernino ed inizia a leggere, con tutte le vene del collo che gli si gonfiano e la tosse che si fa sempre più grossa, una specie di diario in cui si parla delle sue esperienze da sadomasochista: si racconta di sfere di acciaio infilate nell’ano, di sessioni di bondage, di facesitting, di tagli sul petto e sigarette spente sulle piante dei piedi.
Poi il comico si toglie anche i pantaloni e rimane nudo: i testicoli sono stretti in una specie di tenaglia di metallo e sul glande si vedono le capocchie di cinque o sei piercing. Tu non ti sei mai fatto un piercing, ma sai che quella è la parte più sensibile del corpo maschile.
Il comico continua a tossire e a raccontare strane storie che parlano di malattia, di chiodi ficcati nelle braccia e di scopate cattive fino a quando, da uno dei due lati del palcoscenico, entra una signora sui quarant’anni, distinta, seria, con una permanente vecchio stile ed un vestito a fiori. I due si guardano e poi lei gli si avvicina, gli da uno schiaffo, lo prende per un orecchio e lo fa sdraiare sul tavolo da autopsia. Per i restanti venticinque minuti lo tortura.
Voi quanto riuscireste a resistere a questo spettacolo?
Cinque minuti?
Di meno?
Beh, c’è qualcuno che ha resistito per 43 anni.
Di chi sto parlando? Ma di Bob Flanagan, naturalmente!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

TITOLO: “Sick: the life and death of Bob Flanagan, Supermasochist”

REGIA: Kirby Dick

ANNO: 1997

CAST: Bob Flanagan, Shenee Rose, I genitori di Bob Flanagan

TRAMA:
La vita dello stand up comedian, musicista, performer, artista concettuale e scrittore Bob Flanagan letta attraverso le immagini della sua vita pubblica, della sua vita privata, le testimonianze della sua compagna, di suo fratello e dei suoi genitori. Bob Flanagan, malato di fibrosi cistica dalla nascita, ha sconvolto il mondo dell’underground artistico americano con le sue performance ed i suoi video in cui, oggetto centrale, era il suo corpo e la violenza su di esso inferto.

Quando si parla di documentari, spesso, si corre il rischio di “ridurre” il tutto al classico documentario naturalistico alla Super Quark e si finisce per tralasciare (se non addirittura dimenticare) dei veri e propri capisaldi del genere ( vedi Flaherty). Altra tendenza che io odio parecchio, invece, è  l’altra faccia della medaglia: guardare un solo documentario (adesso va tanto di moda “fuocoammare” di Rosi) e pensare che, guardando quella ora e mezza, siamo diventati esperti del genere.
Personalmente sono un grande amante del documentario d’autore-parliamo di Herzog e Wiseman- e credo che sia, se non l’unica, almeno una delle poche forme di cinema che si confronta in modo vero, sincero e concreto con la realtà.
E a questo punto vi starete chiedendo: “Ma perché ci stai facendo questo discorso? Il pippone pseudointellettuale con le tue riflessioni sul mondo ce l’hai già fatto all’inizio dell’articolo. Adesso vogliamo la ciccia: di cosa parla il film?”
Ottima obiezione e grande domanda, ma per rispondere alla domanda di quale sia “la ciccia” dell’articolo, il concetto di documentario è necessario. Perché? Perché il documentario ha delle regole di stile e, chiamiamole così, “morali” e trasgredire quelle regole, tradirle, significa sfociare, se va bene, in un prodotto mediocre e, se va male, in qualcosa di vergognosamente scorretto e ai limiti della legalità.
Cosa voglio dire con questa affermazioni? Che spesso, quando si filma la realtà, il pericolo di strafare è sempre dietro l’angolo. E questo film, in molti punti, supera il limite.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Facendo un discorso generale sul film, inizieremo dicendo che è un piccolo concentrato di tutte le tecniche documentaristiche chiave: dai materiali di repertorio alle interviste frontali; dall’inseguimento del personaggio alla confessione davanti alla macchina da presa.
Tutte queste diverse e variegate tecniche, almeno per la prima parte del film, sono usate coerentemente per descrivere il personaggio di cui vogliamo conoscere la storia: i genitori ci raccontano della sua malattia, la fibrosi cistica, e della sua infanzia travagliata, passata tra ospedali e dolorose terapie. Tutte queste immagini di un bambino fragile e dalla salute cagionevole-due dei fratelli di Bob Flanagan, affetti da fibrosi cistica, sono morti della stessa malattia a pochi mesi di vita-vengono contrapposte alle riprese amatoriali delle performance e del corpo di Bob: lo vediamo mentre si esibisce e, in qualche modo, si sfigura per un pubblico.
Il momento in cui la “narrazione” prende vita, coincide, pressapoco, con “l’entrata in scena” di Sheene Rose: la compagna/mistress di Bob. La presentazione del personaggio è indiretta: vediamo un vecchio filmato in cui la voce fuori campo di Bob legge un’immaginaria lettera scritta alla madre. La lettera narra di come Bob abbia finalmente trovato  la donna della sua vita: una donna che lo ama, che lo fa sentire amato, che gli riempie il cuore e che gli cucina tante cose buone. Il video, come è facile da capire, mostra la vera realtà: Sheene è la sua mistress e lo maltratta, lo usa come tavolo, lo schiaffeggia e lo umilia in tutti i modi.
Questo è il momento in cui  capiamo davvero Bob: torturato da una malattia a cui non ci sono cure, ha deciso di donarsi completamente ad un’altra persone che dovrà umiliarlo e punirlo in tutti i modi che riterrà utili.
Questo strano gioco delle parti del sottomesso e di chi sottomette, sarà il fulcro centrale della vita di Bob ed uno degli argomenti cardini del documentario. Se è vero infatti che il rapporto è per forza consenziente, in molti punti del film il tutto sembra molto sproporzionato.
Sheena racconta di come abbia imposto a Bob di scrivere quotidianamente i suoi pensieri e le sue esperienze di vita al limite e di come tutta questa “disciplina imposta” sia stata, in un certo senso, la chiave del successo di Bob.
Sheena, fin da questa prima parte appare come il personaggio più ambivalente della storia e della vita del nostro protagonista: da una parte tendiamo ad odiarla, dall’altra tifiamo per lei.
Sheena rappresenta, per la vita di Bob, almeno nella sua giovinezza, nella fase che precede il suo “essere presentato al mondo”, una specie di seconda madre e di nave scuola.
Tuttavia, tornando a ciò che non può essere filmato, Sheena si pone al centro della linea di demarcazione sempre: se è vero che è lei a dominare su Bob, è vero anche che il suo scattargli fotografie e girare filmati diventa quasi una sublimazione dei suoi desideri. E questo è sbagliato su due punti: per quanto riguarda il rapporto mistress/slave (tutto quello che succede tra i due deve rimanere confinato entro uno spazio “di sicurezza”) e rispetto alla vita di Bob.
Tra qualche riga vedremo meglio.

Gli anni di torture e scritture portano Flanagan a scrivere e pubblicare due libri-“Journal of Fuck” e “Journal of Pain”-, mettere su un repertorio ed andare in giro ad esibirsi. La svolta arriva quando un prestigioso museo di New York gli concede lo spazio per una sua personale,
Ecco, questo è il momento in cui capiamo che la macchina da presa di Sheene, la sua presenza e la sua persona iniziano ad essere in qualche modo ingombranti: durante tutta la preparazione delle opere di Bob, progressivamente capiamo che il loro rapporto si è inclinato: Bob è riuscito a liberare il suo estro creativo e il rapporto e le dinamiche tra i due sono cambiate: adesso è Bob che detta le regole e anche le loro strane sessioni di bondage e di sottomissione sono funzionali ad uno spettacolo performativo.
Shenne riprende tutto, documenta tutto ma non lo fa in modo imparziale: tutti i suoi commenti in fuori campo ci mostrano quello che davvero sta pensando: il giocattolino si è rotto, è sfuggito al suo controllo e bisogna fare di tutto per riprendercelo.
Ed è in questa seconda metà del film che il filmare la realtà straborda: la macchina da presa, per Bob stesso, diventa una specie di filtro, di atteggiamento che impedisce la conversazione. Lo notiamo nella scena in cui i due, in albergo, parlano: Bob è serio e cerca di instaurare un dialogo, Sheene, complice la macchina da presa, cerca di ridurre la sua arte, la sua vita ad una semplice perversione sessuale.
Qualcosa, a questo punto del film, si incrina e diventa grottesco: una ragazza affetta da fibrosi cistica vuole conoscere Bob, loro si incontrano e Sheene la convince a farsi bucare i capezzoli con due piercing.
Il viso di Bob è terreo.
Ci avviciniamo alla fine del film e ai due momenti peggiori del film: Bob, uscendo dall’ospedale, incontra un’infermiera che prega per lui. Il suo atteggiamento è quello di un uomo che cerca di avvicinarsi, il più serenamente possibile, alla morte. Sheene distrugge il gesto dell’infermiera. I due tornano a casa e Sheene inizia a filmare una sessione in cui, lo vediamo, Bob non è coinvolto. Due ore dopo sono all’ospedale. L’occhio della mdp di Sheene diventa ingombrante: Bob non le risponde nemmeno. All’ospedale Bob perde i sensi. La macchina da presa continua a filmare. Bob rinviene ed è disperato, capisce che sta per morire e parla con Sheene. Le sue parole sono devastanti: “I’m dying? I’m really dying? I can’t understand this, why I’m dying?”. La macchina da presa stacca. Nell’inquadratura successiva Bob è già morto. Arriviamo al punto di narcisismo e voyerismo più basso: una sequenza di foto prese da Sheene del corpo morto di Bob: dalla sua figura intera, al suo viso, al suo corpo nudo, al primo piano del suo pene.
Herzog, nei suoi documentari, sostiene che ci sono delle cose che non si possono mostrare. Questa è esattamente una di quelle che non dovrebbero essere mai mostrate.
Il film continua con il funerale e l’ultimo atto di narcisismo di Sheene: due mesi dopo, il ricordo che ha e che vuole mostrare del suo compagno di una vita, è il contenitore dei fluidi corporei che perdere a causa della fibrosi cistica.

Le domande che restano aperte, alla fine di questo documentario, sono tante. La prima è sicuramente relativa all’immagine e alla nostra tendenza innata alla scoptofilia: fino a quanto posso guardare? Fino a dove posso spingermi se qualcuno mi desse il diritto di spiare la sua vita ventiquattro ore su ventiquattro? E se qualcuno mi desse la possibilità di fare di lui quello che voglio?
Nell’era di Internet-ma prima ancora dei reallity-, queste ci sembrano domande scontante ma non perché abbiamo trovato la risposta, ma perché è diventato naturale per noi guardare e quel sentimento vagamente sadico (la tendenza che ci porta a sorridere e a godere quando un nostro nemico è in difficoltà) non ci fa più paura. Pensiamoci: quante volte ridiamo per dei video in cui vediamo ragazzi e ragazze che vengono picchiati o umiliati o vessati e ridiamo? E che giustificazione ci diamo? Che sono solo scherzi? Che erano d’accordo? Vogliamo davvero credere che sia tutto così semplice?

La seconda riflessione che ci porta a fare il film è quella dei motivi che ci spingono a fare le cose. Bob ha distrutto il suo corpo per una vita, un corpo che era già consumato da una malattia. Perché lo ha fatto? Per narcisismo? Per punirsi? Forse, la soluzione, ci viene dall’ultima poesia che sentiamo letta dalla voce di Bob alla fine del documentario.

Voto: 7