…Non devi buttarti giù: un uomo giusto, in questo brutto mondo, si trova sempre”. “I tempi non sono mai così cattivi”: Andre Dubus e l’arte della short story (di Alessandro Di Giuseppe)

L’America è sempre più vicina.
Questa non è una cosa negativa, una constatazione triste, un avvertimento allarmato in stile Guerra Fredda, è una costatazione-si potrebbe dire “amichevole”-di una tendenza che abbiamo (che ci hanno fatto) inglobare.
E se state pensando che voi no, voi non siete del branco, voi non vi fate infinocchiare, che voi siete alternativi e non sarete mai schiavi dei vari Clinton, Bush, Bush Junior, Obama e Trump, beh, guardate nel vostro armadio: quante griff italiane avete? E le vostre scarpe? Sono prodotte in Italia? E la musica che ascoltate, in che lingua è cantata? E i siti internet che visitate ogni giorno? E i telefilm che vi piacciono tanto-quelli che, se siete degli scassacoglioni con la puzzina sotto il naso come me, guardate solo in lingua originale- chi li produce?
Adesso non volevo traumatizzare nessuno, ma la verità è questa: siamo attirati dall’America e l’America, lentamente, sta entrando nel nostro immaginario collettivo. E, se da un lato è una cosa veramente bellissima-finalmente abbiamo imparato che tutte le nostre varie autarchie e le nostre battaglie del grano sono completamente inutili-, dall’altro, da classici italioti, ci stiamo rovinando: le paninoteche tradizionali hanno cambiato volto e menù-si sono trasformate in una specie di versione uscita male dei fast food dei film di Tarantino-, i vestiti non hanno più le taglie ma le “size” e i prezzi, con questa scusa, sono lievitati.
Se questo discorso può sembrare aggressivo e ideologico, vi tranquillizzo subito: io sono uno di quelli che guarda i telefilm in lingua originale, è innamorato dell’idea di New York filtrata dai telefilm e dai film di Woody Allen e guarda soltanto i comici Americani.
Quindi, per fare la voce fuori dal coro-ma anche soltanto per rompere un po’ i coglioni-, non farò la parte di quello che se la prende con l’America, dirò quello che mi piace di questo nuovo modo di guardare agli States.
E credo che la cosa più bella che sta succedendo, è il fatto che le informazioni e le cose fighe stanno diventando di dominio pubblico: dai sottotitoli sugli spettacoli di Louis C.K. su sky, alle serie portate in Italia grazie a petizioni online, dai dibattiti elettorali resi pubblici sulla rete, ai programmi musicali, l’America ci sta facendo crescere.
Ecco, parlando di America e di americani, c’è un progettino molto ma molto interessante di una piccola ma fenomenale casa editrice che si chiama Mattioli 1885.
Che progetto è?
Si chiama Frontiere ed ha la missione di portare in Italia, in traduzioni o ritraduzioni testi o autori scomparsi o mai arrivati in Italia.
E io li amo.
Perché?
Perché hanno portato in Italia lui:

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TITOLO: I tempi non sono mai così cattivi

TITOLO ORIGINALE: The times are never so bad

DATA DI PRIMA PUBBLICAZIONE: 1983

CASA EDITRICE ORIGINALE: Arrangement with David R. Godine, Publisher Inc.

DATA PUBBLICAZIONE ITALIANA: 2015

CASA EDITRICE ITALIANA: Mattioli 1885

TRADUZIONE: Nicola Manuppelli

TRAMA:
Una raccolta di nove racconti che ci portano alla scoperta di un’altra faccia dell’America: quella dimenticata, quella che tace, quella che sta nascosta dietro le porte delle casette in legno. Storie di padri disperati e di madri coraggio, di capitani dell’esercito con un cuore grande e di rapine in banca, di crescita e di sconfitta, di omicidi e di fughe, di viaggi e di dolore, di gioia e di vita.

“I tempi non sono mai così cattivi”, libro che deve il titolo alla famosa citazione di San Tommaso Moro (“I tempi non sono mai così cattivi da non trovarci un uomo buono”), è la quarta raccolta di racconti di Andre Dubus.
Ai più, ne sono sicuro, questo nome non dirà nulla. Eppure, in qualche modo, è strettamente collegato con un nome, con uno scrittore di cui conoscerete sicuramente il nome. Di chi sto parlando? Ma di Stephen King, naturalmente.
Ma cosa c’entra Andre Dubus, questo sconosciuto, con il re dell’horror?
Dovete sapere che, a differenza della tendenza generale degli artisti italiani (ti conosco e parlo con te fino a quando non divento ricco e famoso e poi ti dimentico), in America c’è una folta schiera di autori che, nata dietro i banchi delle scuole di scrittura creativa-in America funzionano bene ed hanno i corsi e la durata di un biennio-, rimangono strettamente in contatto tra di loro. Non stupisce, quindi, che scrittori immensi vengano collegati ad autori quasi sconosciuti.
Questo è l’esempio di Andre Dubus e di Stephen King.
Del primo sappiamo praticamente tutto, del secondo meno.
Andre Dubus è uno scrittore nato nel 1936 e morto nel 1999. Prima di diventare uno scrittore, si era arruolato nell’esercito e poi, grazie ad una borsa di studio, entra in una scuola di scrittura creativa. I suoi insegnanti? Due nomi tra tutti: Richard Yates (sì, quello di “Revolutionary Road”) e Kurt Vonnegut (esatto: quello di “Mattatoio numero 5”).
Inutile dire che, già dalla prima lezione, Dubus aveva già pronto un romanzo-si chiamava “The Liutenant” e verrà pubblicato- e che si distingueva dagli altri per un talento: sapeva scrivere delle short stories divine. E indovinate chi, una volta pubblicate, leggerà e si innamorerà di queste short stories? Proprio lui: Stephen King!
(Stephen King, tra le altre cose, diventerà amico di famiglia dei Dubus, creerà un fondo per provvedere alle cure mediche di Andre Dubus padre e si farà presentare, in uno dei suoi recenti tour di presentazioni, dal figlio di Andre Dubus, Andre Dubus III, altro grande scrittore)

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Tornando al libro, “I tempi non sono mai così cattivi” ci mostra uno spaccato-forse un po’ disincantato ma estremamente dolce- di un’America di contorno disperata e in cerca di un riscatto che, ne è consapevole, non arriverà mai.

Storie dure scritte con grazie con una cura maniacale verso i personaggi. Vi ritroverete, leggendo queste pagine, ad essere parte di loro, parte delle loro storie, vivrete i loro drammi e vorrete dirgli-e dirglielo da amici, davanti ad una pinta di birra, in un fumoso bar aperto tutta la notte- che l’unico modo per salvare il salvabile è andare vie.
Storie d’amore che parlano di affetto e di crescita, che ci mostrano come tutti siamo deboli e troppo spesso disattendiamo le aspettative degli altri: esempio di questo discorso non può che essere il secondo racconto della raccolta (“Benedicimi Padre”): un piccolo gioiello che ci mostra come un tradimento fatto da un padre e scoperto da sua figlia, possa essere un’occasione di crescita e di disillusione.
La disillusione, il disincanto-traspare molto dalle pagine di questo libro-sono state, per l’autore, un momento drammatico. Non dobbiamo dimenticare che Dubus ha preso la via dell’esercito per dimostrare a suo padre di essere “un uomo d’azione”.
Essere un uomo d’azione, un vero uomo, uno di quelli forti e che non piange mai, sono le tematiche che stanno alla base de “Il capitano”, uno dei racconti più struggenti della raccolta: la storia di un vecchio capitano dei marines la sera prima che suo figlio parta per il fronte.

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La partenza per il fronte, nella visione di Dubus padre, non può che essere ricollegata ai suoi divorzi, alla dolorosa e cocente malinconia che prova un padre divorziato quando i suoi figli, dopo un week-end passato insieme, tornano a casa della madre (per capire meglio questo discorso, ti invito a leggere il racconto “Il padre d’inverno” di Andre Dubus, contenuto in una raccolta che prende il nome da questo racconto e che è stata pubblicata da Mattioli 1885).
“Anna”, penultimo racconto della raccolta, è il risultato di nove diverse stesure.
La raccolta si conclude con “Storia di un padre”, un inno all’amore semplice e totali di un padre nei confronti di suo figlio.

 

In definitiva un libro intenso, carico di immagini poetiche e di situazioni quotidiane. Personaggi costruiti in modo impeccabile, perfetto, e colti nei loro momenti migliori: quelli di debolezza.
Un libro magnifico da leggere e rileggere

VOTO: 10!