…Perché l’unica cosa che mi va di fare, a fine turno, è sdraiarmi sul divano, stappare una birra ed ascoltare il Boss. “Nebraska”: Bruce Springsteen e l’altra faccia dell’America (di Alessandro Di Giuseppe)

Fare un trasloco, lo sappiamo tutti, è una delle cose più stressanti e fastidiose del mondo: devi prendere un sacco di roba, metterla dentro valigie e scatoloni che pesano l’ira di Dio, caricartela in macchina e trovare qualcuno che ti aiuti a metterla in ordine e che abbia il cuore di aiutarti a pulire casa nuova-lo sappiamo tutti che le case o le stanze nuove, per belle che siano, ci sembrano sempre sporche e polverose.
Ecco, se fare un trasloco “normale” è uno degli eventi più traumatici che può vivere una persona, immaginatevi cosa significa fare un trasloco usando solo i mezzi pubblici.
Riuscite a pensarci? Scasare e dover infilare tutto-ma proprio tutto tutto- quello che vi serve in due valige ed uno zaino.
Ecco, visto che so cosa si prova e non voglio essere causa dei vostri attacchi di panico, vi dirò soltanto che, nonostante sia un’esperienza sfiancante, qualcuno ce la fa.
E tra quei qualcuno, ci sono anche io.
Vi risparmierò tutti i piccoli dettagli, ma sappiate che, in un modo o nell’altro, tra valigie, controvaligie, uno zaino ed una chitarra, ho portato quasi tutto.
Che poi, lo sappiamo tutti, la cosa bella di quando fai un trasloco è che cambi casa, cambi zona, se ti va di culo cambi ragazza e c’è una specie di epifania, di nuovo inizio che ti da l’idea, almeno per i primi quindici giorni, di avere in mano la tua vita.
Che poi, se ci pensiamo bene, i primi giorni in una nuova casa, in un nuovo quartiere, sono i più belli: sei lì che esplori la tua via, che ti cerchi i negozietti più economici, che ti abitui alla nuova zona, al nuovo condominio, ai nuovi coinquilini.
Ecco, un mese e mezzo fa, mentre girovagavo per la mia nuova via, ho scoperto di avere, praticamente sotto casa, un negozio di dischi gestito da questo tipo magrissimo, altissimo, con una lunga chioma di capelli grigi e la barba alla Frank Zappa.
La cosa bella di quel negozio di dischi, però, oltre al fatto che lui era uno di quegli ascoltatori spocchiosi e con la puzzettina sotto il naso-ascolta soltanto free jazz e in vinile e non ha praticamente cd-era che, proprio il giorno che l’ho scoperto, stava rifacendo la vetrina ed aveva piazzato, proprio al centro, un cartonato a grandezza naturale di Bruce Springsteen.
Adesso, come molti di voi, a me, di Bruce Springsteen, non me ne è mai fregato nulla: lo consideravo uno che faceva un sacco di concerti ma li faceva perché era uno che faceva canzonette commerciali.
Poi, ad un certo punto, più o meno a Marzo dell’anno scorso, complice la mia inedia, ho iniziato ad ascoltare seriamente le canzoni che scriveva, a leggerne i testi.
Ecco, non so se ho sbagliato completamente approccio, ma ho ascoltato questo disco. E me ne sono innamorato:

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TITOLO: Nebraska

BAND: Bruce Springsteen

ANNO: 1982

LABEL: CBS Records

TRACKLIST:

1) Nebraska
2) Atlantic City
3) Mansion on the hill
4)Johnny 99
5)Highway Patrolman
6) State Trooper
7) Used Cars
8) Open all night
9) My father’s house
10) Reason to believe

Deviando dalle atmosfere e dagli arrangiamenti “caldi e ballabili” di album come “Born to run” (1975) e “The river” (1980), “Nebraska” rappresenta, nella produzione di Bruce Springsteen, una perla unica nel suo genere: è il primo disco in cui suona completamente in solo-lo ha registrato con una chitarra acustica, un’armonica a bocca ed un vecchio registratore multitraccia- ed il primo completamente acustico.
Andando con ordine, l’album si apre su “Nebraska”: canzone lenta, quasi una ninna nanna, accompagnata da un’armonica a bocca che scandisce gli “stacchi” tra le strofe ed un arpeggio di chitarra. Canzone lenta, ballata di dolce amore, sembrerebbe ad un orecchio poco attento (o poco allenato alla lingua inglese), ma se andiamo a leggere il testo ci accorgiamo seriamente di cosa parla questa canzone: racconta la storia di Charles Starkweather, un serial killer che, in due mesi, e con l’aiuto di Caril Ann Fugate-la sua ragazza-ha ucciso undici persone negli stati del Nebraska e del Wyoming. I due sono stati arrestati-lui aveva 21 anni e lei ne aveva 14-sono stati processati e condannati a morte.
Ecco, il disco di Springsteen si apre su questa canzone. Il motivo? Probabilmente-e dovrebbe essere una fonte ufficiale: lui stesso-perché il cantautore, durante la composizione e la registrazione di questo disco, soffriva di una forma acuta di depressione. In realtà, gli stati depressivi e di stress più o meno gravi del Boss-pensiamo soltanto che, perlomeno all’inizio della sua lunga attività, era considerato, da discografici senza scrupoli e vogliosi soltanto di scucire soldi, un campagnolo del New Jersey-durano, almeno fino agli anni ’90.
Cosa c’entra Charles Starkweather con la depressione di Springsteen? Beh, immaginate di essere disperati, di non riuscire a fare concerti, di avere un discografico di merda che non vi fa vendere dischi, di vivere in un buco di culo di provincia americana e, per vivere, vi tocca lavorare in un autolavaggio. Credo che, sentire uno che ne ammazza un po’, di quelli che ti fanno fare la fame, non possa che creare subito un sentimento di empatia.

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Procedendo con l’ascolto, si arriva ad “Atlantic City”: una classica ballata in stile Springsteen. Attenzione, però, non c’è nulla che sia paragonabile alla bellissima “Hungry Hearts”-canzone che, in realtà, parla di un padre di famiglia che lascia tutto per seguire una ragazza conosciuta in un bar per poi essere lasciato. “Atlantic City” è un pezzo che parla di lavoro, di amore, di malinconia e di difficoltà economiche: è la storia di due amanti che devono organizzare un incontro ad Atlantic City e, in questa specie di lunga lettera che lui scrive a lei, traspare tutta la difficoltà di quello che Pavese chiamerebbe “il mestiere di vivere”:si parte dagli scontri e dalla crisi economica fino ad arrivare al fatto che, per trovare uno straccio di lavoro serio, il protagonista ha dovuto chiedere un favore ad un “amico”. Un pezzo orecchiabile, bellissimo e duro allo stesso tempo.
Dopo la chiusura di “Atlantic City”, il disco ci porta su atmosfere più oniriche e malinconiche: “Mansion on the hill” è il ricordo commosso del protagonista della canzone di un avvenimento dolce della sua infanzia: il padre che lo portava, in macchina, a guardare una vecchia casa di campagna. La canzone si sviluppa concentrandosi sul ricordo delle fantasie che scaturivano dalla visione di questo vecchio casolare: l’erba alta, le feste dei bambini, il protagonista e la sorella che avrebbero potuto giocare con una vecchia altalena e rincorrersi, i ricordi di un mondo felice. E il protagonista, la voce narrante, alla fine della canzone ci dice che lui, probabilmente in una notte senza luna, è lì, in autostrada e guarda la stessa casa.
Si passa quindi a “Johnny 99”, un brano dal ritmo più ritmato e che anticipa di due anni il tema di fondo del brano più famoso di Springsteen: “Born in the U.S.A.”. “Johnny 99”, infatti, è la storia di un uomo che, dopo la chiusura della fabbrica di scarpe dove lavora, impazzisce ed uccide un altro uomo. Johnny 99, questo è il soprannome che gli danno, viene quindi catturato e processato. Al processo, davanti al giudice, si difende dicendo che quel gesto estremo era dovuto al fatto che, senza lavoro e pieno di debiti, ha perso la testa.
All’inizio del “viaggio” attraverso questo disco, parlando della title track (“Nebraska”) ho detto che la storia di Charles Starkweather potrebbe aver ispirato, in un momento di depressione, il cantautore. Con questa canzone, che chiude un po’ tutta la prima parte del disco, la supposizione risulta vera: se “Nebraska” era una canzone che raccontava la strage di un uomo nelle provincie rurali dell’America industriale, gli altri tre pezzi sembrano essere delle “variazioni su tema” della stessa storia. Si parte quindi dalla storia d’amore raccontata in “Atlantic City” in cui si accenna alle condizioni di lavoro e di crisi (“Now I been lookin’ for a job but it’s hard to find Down here it’s just winners and losers and don’t get caught on the wrong side of that line”), si passa nel vedere il futuro killer che, magari la sera prima dell’omicidio, torna a vedere i luoghi felici della sua infanzia (“Tonight down here in Linden Town/ I watch the cars rushin’ by home from the mill/ there’s a beautiful full moon rising above the mansion on the hill”) fino al gesto brutale (“Ralph went out lookin’ for a job but he couldn’t find none/ he came home too drunk from mixin’ Tanqueray and wine/ he got a gun shot a night clerk”) e al processo e alla sua difesa estrema (“Well your honor I do believe I’d be better off dead and if you can take a man’s life for the thoughts that’s in his head then won’t you sit back in that chair and think it over judge one more time and let ‘em shave off my hair and put me on that killin’ line”).
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Altro segnale che ci suggerisce che ci sia una specie di ideale distinzione in due parti, in questo album-non a caso, nella versione in vinile, ci sono due “sides”, due lati- è il cambio di personaggi: si passa dai poveri cristi che cercano di arrivare a fine mese e sparano, ai tutori della legge e a quelli che poi, dalla provincia, scappano. La canzone successiva è un lampante esempio di ciò.
“Highway Patrolman”, infatti, è la storia di Joe Robertson, poliziotto, che racconta di come suo fratello Franky-un tipo poco raccomandabile, la pecora nera della famiglia-si metta sempre nei guai e come, una sera, dopo una rissa in un bar, scappi dalla città. Questo è un pezzo che ha un testo bellissimo e vi consiglio vivamente di leggerlo (ci sono traduzioni praticamente in ogni angolo dell’internet) perché ha uno storytelling da romanzo ed è scritto magnificamente.
Se “Highway Patrolman”-da cui, tra le altre cose, hanno tirato fuori un film: si chiama “Indian Runner” (“lupo solitario”), è stato diretto da Sean Penn (sì, quello di “Into the wild”) ed è la trasposizione fedele, su grande schermo, di quella canzone-era la storia di questo poliziotto che, diciamola in questi termini, lascia scappare suo fratello, “State Trooper”, forse il pezzo più ritmato del disco, sembra seguire Franky nella sua fuga: la canzone non è altro che la preghiera di questo uomo al volante, senza targa né patente, che guida nella notte e spera che il vigile di turno non lo fermi. Interessante intermezzo che sembra proiettarci direttamente nella notte, direttamente nell’automobile di Franky che, a questo punto, non può che suggerirci l’immagine di copertina del disco.
“Used Cars”, la canzone successiva, è un pezzo acustico, sognante e malinconico che racconta, in un modo dolce, il ricordo di un’infanzia: i viaggi in macchina del padre con tutta la famiglia. Le macchine che prendeva, naturalmente, sono tutte usate.
“Open All night”, è un brano ballabile ed è la storia di un lavoratore in fabbrica-le uniche soddisfazioni che ha, le uniche cose di cui va fiero, sono la sua macchina nuova, tirata a lucido e la ragazza che lo aspetta- che torna, dopo un turno di lavoro a casa dalla sua compagna. Detta così potrebbe sembrare una canzone vuota, ma è proprio sulla “banalità” industriale di un’America dimenticata che Bruce affonda le sue radici-non dobbiamo mai dimenticare che è figlio di operai e lui stesso, prima di diventare il Boss, lavorava in un autolavaggio-ed è questa l’umanità di cui parla, il “popolo” a cui si rivolge e di cui, a torto o a ragione, sente di fare parte.
“My Father’s House” ci riporta alle atmosfere di “Used Cars”: il protagonista della canzone, dopo aver sognato la sua vecchia casa d’infanzia, decide di andare a cercarla, la trova ma ci abita un’altra donna che non lo fa entrare. Stupenda canzone strappalacrime sulla condizione delle classi meno agiate-oltre che a macchine usate, prendono solo case in affitto- e sui ricordi che, al contrario di ogni ricchezza, rimangono per sempre ed arricchiscono l’anima.
“Reason to believe” è un magnifico finale corale di anime perdute, devastate, stuprate dalla loro felicità-ci sono storie di mariti che abbandonano, da un giorno all’altro, le proprie mogli; risse finite male ed aborti clandestini-che si riuniscono e sembrano dirci, guardandoci con i loro occhi stanchi e pieni di lacrime, con i loro volti segnati dalle rughe e dalla vita che, in fin dei conti, le persone trovano sempre una ragione per credere.

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In definitiva, “Nebraska” è un disco intenso e ipnotico; dolce e profondo, lontano dal resto della discografia di Springsteen e profondamente vicino ai cuori di tutti noi.
Un disco corale perfetto che ha la struttura di un romanzo di formazione.
Consigliatissimo

Voto: 10