Cosa direbbe Bazin? (un racconto di Alessandro Di Giuseppe)

Aspettò che i titoli di coda finissero di scorrere, si accese una sigaretta, fece due tiri e guardò verso il soffitto. Erano le due di notte e dalla finestra, da quelle due lastre di vetro satinato dalla condensa, veniva un silenzio da città che dorme: l’unico rumore che intervallava quella quiete irreale, quasi terrifica, che intorpidiva Roma, era il fruscio di qualche macchina. Continuò a fumare per un po’. Arrivato a metà della sigaretta, ciccò nel posacenere, diede un colpo di tosse, si scrocchiò le dita ed aprì un file di Word. Doveva scrivere una recensione, massimo otto cartelle, per il blog di un amico. Quello sarebbe stato il suo spazio settimanale, quello con cui sarebbe riuscito a trasformare quel blog, quello spazio inutile, plebeo, fatto con Altervista, nei suoi personali “Cahiers Du Cinema”. Aveva già in mente un programmazione ferrea: Gennaio sarebbe stato il mese del cinema delle origini, Febbraio sarebbe stato dedicato completamente ad Hitchcock, Marzo a Bogart, Aprile alla Nuova Hollywood, Maggio alla Nouvelle Vague, l’estate alla primavera vietnamita e al cinema lituano, Ottobre al cinema d’autore giapponese, Novembre al cinema sperimentale danese e Dicembre ai grandi autori del Kazakistan. La selezione dei film era così ben ragionata, che qualsiasi festival lo avrebbe invitato per curare una retrospettiva. Ed invece era lì, a Roma, che scriveva per “Ilnostropostonelmondo.altervista.org”. Ci pensò, guardò la sua collezione di libri sul cinema, erano cinquanta volumi impilati in uno scaffale, e sospirò. Molto probabilmente, anche Raymond Bellour aveva iniziato così. Poi finì la sigaretta e si concentrò sul foglio digitale che aveva aperto.

(…)

Alle quattro e mezza del mattino, mezz’ora prima che Katia, la puttana che batteva dall’altra parte della strada, smontasse, non aveva ancora scritto nulla. E non perché non avesse idee, avrebbe smontato pezzo per pezzo, fotogramma per fotogramma, “Colpa delle stelle”, ma non sapeva come iniziare. Ed era un problema: lui era un maniaco della forma e serviva un inizio col botto. Certo, non aveva ancora scritto nulla di pubblicato, ma soltanto perché era un lavoro lungo e duro di analisi e doveva starci dietro. Ma adesso, pensò dopo aver finito un’altra partita a 2048, era il momento di iniziare: si scrocchiò di nuovo le dita delle mani, si preparò un’altra sigaretta, l’accese ed aprì la pagina bianca di word. Ci pensò su per qualche momento poi si girò verso la libreria. In mezzo agli altri libri, c’era “La politica degli autori”. Lui era come quella gente la. Sì, si disse, lui era un intellettuale che la sapeva lunga. Doveva soltanto rilassarsi e fare quello che sapeva fare meglio: parlare di cinema. Sorrise, sputò un respiro di fumo e si concentrò sul monitor.

(…)

Ci aveva messo un’ora, ma alla fine ce l’aveva fatta: aveva scritto il suo inizio ad effetto, la frase con cui si sarebbe aperto l’articolo, la frase che avrebbe trascinato i lettori a leggerlo tutto. Era bellissima. C’era scritto: “Cosa direbbe Bazin di questo film?”. La rilesse e sorrise, esaltato. Adesso, dopo aver trovato l’inizio, si sarebbe soffermato sul corpo del film. Si rollò un’altra sigaretta, era la decima in tre ore ma andava bene così:stava lavorando, gli serviva più nicotina. Fuori dalla finestra, il cielo era diventato più chiaro. Lo guardò. Gli piaceva l’idea di scrivere di notte, quando tutti erano a dormire, e dormire quando tutti gli altri lavoravano. Sorrise di nuovo. Dunque, cosa c’era da dire del film? Ci pensò. Gli serviva un metro di paragone. Si alzò, si avvicinò alla libreria, prese un libro e lo sfogliò fino ad arrivare ad un pagina in cui lui, André Bazin, parlava di “Diario di un curato di campagna”. Lesse. C’era scritto che, in quel film, “la materia del libro era mostrata per quello che era”. Si mise a rifletterci sopra. E nel film che aveva visto, come era trattata la materia?

(…)

Alle otto di mattina, mezz’ora prima che il suo coinquilino si svegliasse per andare a lavorare, sul monitor del pc c’era scritta ancora  soltanto una frase: “Cosa direbbe Bazin di questo film?”. Ci pensò, sbadigliò e cancellò l’ultima parte della frase. La lesse: “Cosa direbbe Bazin?”. Era perfetta. Si alzò ed iniziò a pensarci. Cosa direbbe Bazin? Come lo distruggerebbe? Il contenuto, qualcosa sul contenuto. Oppure no, forse doveva concentrarsi sulla recitazione. Se lo appuntò sul cellulare. Certo, certo, adesso era tutto più chiaro: sarebbe partito dalla recitazione ed avrebbe fatto tutta una riflessione sul contenuto e sulla crisi del cinema. Era geniale! Si rimise a sedere di fronte al pc e controllò l’orologio: erano le otto e un quarto di mattina. Aveva ancora tre ore di tempo per scrivere l’articolo, correggerlo e pubblicarlo. Era poco tempo. Gli sarebbe bastato. Si girò un’altra sigaretta e pensò che ce l’avrebbe fatta.

(…)

La chiamata del suo amico era arrivata alle dieci e un quarto. Gli aveva chiesto come procedesse l’articolo e per che ora contava di pubblicarlo. Aveva risposto che andava alla grande: mancavano soltanto gli ultimi ritocchi. Si salutarono due minuti dopo l’inizio della chiamata. In realtà c’era soltanto quella frase: “Cosa direbbe Bazin?” Ci pensò e decise di prendere una posizione chiara, netta e in controtendenza. Aggiunse un paio di parole, rilesse. Era perfetto. C’era scritto: “Cosa direbbe Bazin? Un film di merda”. Lo scrisse e lo pubblicò. Poi si accese una sigaretta, la fumò tutta e si mise a letto. Forse era troppo breve, ma era la verità. E poi, un critico, doveva essere conciso. E poi, prima di andare addormentarsi si giustificò , a lui di quel film, non gliene fregava niente. Lui era per il cinema d’autore, lui avrebbe fatto strada. Poi si raggomitolò nella coperta e si addormentò…