L’Elisir delLo Strega: tutto quello che avreste voluto chiedere a Paolo Zardi (un’intervista di Alessandro Di Giuseppe)

Ho conosciuto i libri di Paolo Zardi una sera d’autunno del 2010, in una piccola e poco illuminata libreria (In realtà in quella libreria, col senno di poi, ho comprato e letto i libri migliori, quelli più belli, quelli che mi hanno cambiato la vita e il modo di ragionare) di Roseto Degli Abruzzi, il posto in cui sono cresciuto e che, inevitabilmente, adesso odio. Quella libreria l’ho abbandonata, dolorosamente, qualche anno dopo. I libri di Zardi, invece, hanno continuato ad appassionarmi. Cos’altro aggiungere? Mi tremano ancora le gambe al pensiero che abbia accettato ed abbia risposto alla mia intervista:

Ok, devo ammetterlo: sono emozionato come poteva esserlo Truffaut che andava ad intervistare, insieme a Chabrol, Alfred Hitchcock. Cioè, ragazzi, c’è qui il maestro. Troppo esagerato? Ok, ricomincio da capo e mi do un tono: noi siamo SynapsisBlog, siamo tutti studenti e, più o meno tutti, nella vita, vorremmo entrare nel meraviglioso mondo del cinema, delle arti e delle lettere. Tu chi sei? Presentati

Mi chiamo Paolo Zardi, ho 45 anni, sono nato a Padova e, ad eccezione di una parentesi tra il 2000 e il 2005, ho sempre vissuto qui. Dopo il Liceo Classico mi sono iscritto a Ingegneria elettronica; da circa vent’anni svolgo l’attività di libero professionista nel settore dell’informatica, dove mi occupo di Business Process Management. Sono sposato con Dunja dal 2002, e ho due figli, Jurij e Matija. Ho sempre amato scrivere ma ho iniziato a farlo con continuità dalla sera del 5 gennaio del 2006, quando ho aperto, per caso, il mio primo blog, pabloz.blogs.it. Da allora, non ho mai smesso. Ho esordito nel 2008 con un racconto nella raccolta “Giovani cosmetici” curato dalla bravissima Giulia Belloni per i tipi della Sartorio, anche se, in modo meno ufficiale, nel 2007 un mio racconto, “Sei minuti”, vincendo un concorso organizzato dal gruppo teatrale “Le Stagnotte”, a Piacenza, era uscito all’interno di un elegante libricino venduto a scopo di beneficienza. Ho la barba, che negli ultimi è diventata grigia.

Da bravi quasi nativi digitali (io sono orgoglioso di essere nato tre anni prima del 1994 e mi vanto di avere almeno un paio di validi motivi per odiare Berlusconi) siamo nati e cresciuti con il blog, con l’idea del self publishing e della libertà creativa assoluta. Tu hai iniziato scrivendo su un blog, Grafemi, su cui ancora scrivi, che è ancora vivo. Quando hai deciso di aprirlo? Quali erano le tue aspettative? Scrivere su un blog ti ha aiutato nella tua carriera di scrittore? Credi che adesso, negli anni zero, con l’arrivo di Internet, degli spazi gratuiti e con la possibilità di diventare il direttore marketing e il consulente di immagine di sé stessi, l’iter classico di uno scrittore (concorsi letterari, pubblicazione a proprie spese che vende poche copie, seconda pubblicazione che va meglio, piccola casa editrice etc etc) sia cambiato? E credi che, sui blog, si possa fare letteratura di buona qualità?

Grafemi rappresenta la fase finale della mia esperienza con i blog, iniziata, come detto, in una piattaforma minore, con il blog pabloz.blogs.it. Ero convinto di voler parlare di politica, mi sono trovato invece a raccontare i miei ricordi; e quando sono finiti, ho iniziato a scrivere racconti. I primi due anni sono stati un’esperienza totalizzante – forse l’esperienza culturale più importante della mia vita. Al blog – a quella piattaforma – devo tutto. Ma come la gran parte delle belle cose, anche quella splendida avventura è finita, e nel peggiore dei modi: alla fine, tutti odiavano tutti. E’ stato terribile, perché ho avuto la chiarissima impressione che la convivenza tra esseri umani sia solo una mera utopia. Ho quindi deciso di abbandonare tutto e di aprire Grafemi, con due obiettivi ben precisi: il primo era “parlare solo di scrittura (in tutte le sue declinazioni)”, il secondo “mantenere le distanze”. Non volevo precipitare ancora nel circolo vizioso dei commenti incrociati – io scrivo che tu sei bravo, e poi mi aspetto che tu faccia lo stesso – o di promozioni a tappeto, con visite selvagge a tutti i blog dell’universo per ricevere, in cambio, un click. Su Grafemi, scrivo facendo finta che nessuno legga il mio blog e, per certi versi, è proprio così. 
Sulla possibilità di fare letteratura attraverso il blog: sì, purché sia chiaro che, salvo rare eccezioni, la gente tende a sottovalutare la qualità di quello che si trova in rete. E il percorso dal blog alla carta stampata non è per niente scontato.

Da Grafemi, dal contesto del digitale, sei passato al cartaceo. Non siamo ancora ad un’opera completa e interamente scritta da te, ma i tuoi racconti appaiono in alcune antologie. Come è avvenuto l’avvicinamento al mondo dell’editoria?

In modo del tutto casuale. Ho partecipato a un concorso, l’ho vinto; ho partecipato a un secondo concorso, e l’ho vinto. Tramite un amico di un amico, come nella migliore tradizione italiana, sono uscito a cena con l’editor e talent scout Giulia Belloni, alla quale volevo chiedere un consiglio su come proporre un romanzo che avevo scritto; non mi ha dato alcuna indicazione, ma in compenso ha deciso di farmi esordire in “Giovani cosmetici”. In quella raccolta c’era anche un racconto di un giovane Francesco Coscioni che proprio in quei mesi stava aprendo la Neo Edizioni. Via mail, si è creato un bel rapporto di empatia; un anno dopo ci siamo conosciuti di persona, e abbiamo capito di avere molte cose in comune – anche se bisogna ammettere lui è decisamente più bello di me. Pochi mesi prima mi aveva chiesto un racconto per un’antologia che stavano preparando, che poi è uscita con il titolo “E morirono felici e contenti”. Il fatto che rifiutò il mio racconto (che può essere letto qui https://grafemi.wordpress.com/2011/10/02/la-principessa-sul-pisello/, per i più curiosi) mi fece capire che la stima e la simpatia reciproche non avrebbero mai influenzato il loro giudizio, e questo mi ha convinto, diversi mesi dopo, a sottoporre alla loro attenzione una raccolta di racconti…

E si arriva al 2010 e all’uscita di “Antropometria” per la NEO. Edizioni. Prima di parlare meglio del libro (tranquillo: non ti chiederò racconto per racconto) come mai proprio con la NEO.? Scelta voluta o indotta? Anche io scrivo e tutti, nessuno escluso, mi hanno detto che i libri di racconti, in Italia, non li legge più nessuno. Esordire con una piccola ma forte casa editrice e con un libro di racconti, nel 2010, in Italia, quindi, è una scelta coraggiosa. Faccio il rompicoglioni: “perché racconti e non un romanzetto breve”?

Da persona estranea al mondo dell’editoria, sapevo vagamente della generale resistenza che le case editrici oppongono alle raccolte di racconti. Quando gliel’ho mandata, ho pensato che sarebbe stato bello fare qualcosa insieme: se mi avessero detto di no, mi sarei proposto per mettere le fascette ai loro libri, o qualcosa del genere. Non ho mai pensato ad altre case editrici, mi piaceva la Neo, per una sorta di affinità elettiva, o, più prosaicamente, perché trovavo che il loro progetto, il loro modo di proporsi, fosse la cosa più cool che avessi mai visto. Mi piaceva l’idea di far parte della loro squadra.
A dire il vero, poi, io avevo anche un romanzo breve, e anche un romanzo davvero lungo, più di 400 cartelle; ma pare che i racconti che scrivevo fossero più interessanti, ed è andata bene così.

“Antropometria” è un libro che mi ha sedotto. Ti spiego: mi corteggiò, guardandomi da uno degli scaffali della libreria che frequentavo spesso in quel periodo, per tre settimane. Alla fine lo comprai. In realtà lo comprai per sfida: non credevo che uno scrittore italiano (in quel periodo leggevo soltanto scrittori, possibilmente morti, americani e inglesi) potesse farmi entusiasmare. Lessi la quarta di copertina prima di comprarlo. Mi avvicinai alla cassa, lessi la citazione iniziale. Dieci minuti dopo, avevo già comprato il libro e letto quattro racconti. Non riuscivo a credere che qualcuno che parlasse di storie ambientate in Italia potesse essere così freddo, così diretto, così cattivo e così coinvolgente. Si inizia con “Sei Minuti” e si va a salire, a crescere. La domanda è: cosa ti ha ispirato, tra letture, fatti di cronaca, episodi della tua vita, ricordi, chiacchiere sentite qua e la, nel periodo della stesura di quel libro? E come hai deciso di “montare”, di posizionare i racconti?

La raccolta che avevo inviato alla Neo comprendeva venticinque racconti e cinque poesie – praticamente tutta la mia produzione “breve” fino a quel momento. Durante la prima fase di confronto, sia Francesco sia Angelo Biasella, che è la persona che alla Neo si occupa dell’editing, hanno indicato quali racconti funzionavano e quali no – in altre parole, mi hanno aiutato a definirmi come autore. Le ispirazioni sono state tante – leggo assiduamente da quando ho quattro anni – ma credo che le influenze più importanti siano da ricondurre ai libri degli autori americani che trovano nella libreria di casa, amorevolmente curata da mio padre, grande lettore, nomi come Salinger, Flannery O’Connor e Caldwell, e poi ai racconti di Kafka e ai romanzi Kundera, in età un po’ più adulta, e poi ancora, quando avevo già iniziato a scrivere (quindi dopo il 5 gennaio del 2006), alla lettura di Philip Roth, Vladimir Nabokov, Wallace e Martin Amis. Come vedi, non ci sono italiani, in questa lista: se nel 2010 mi fossi girato indietro, avrei trovato qualcosa di Calvino, i racconti di Buzzati che una baby sitter anticonformista mi leggeva quando avevo otto anni, un libro di Vasco Pratolini, un altro Italo Svevo, e poco altro. Non è spocchia, ma ignoranza bella e buona. Se poi da questa ignoranza è nato qualcosa di interessante, sono comunque contento. Negli ultimi anni, comunque, sto cercando di colmare le mie lacune.
Per quanto riguarda il montaggio, ci ho lavorato diversi giorni, muovendo, nel tappeto di casa mia, dei biglietti con i titoli dei racconti, fino a cercare la sequenza perfetta. Quando però mi sono sentito con i Nei per prendere la decisione finale, non ricordavo più i titoli, che nel frattempo erano cambiati! Con il senno di poi, l’unica modifica che farei è spostare un po’ più avanti “Futuro anteriore” – anche se devo ammettere che quando leggo un libro di racconti non mi sono mai sognato di seguire l’ordine scelto dall’editore: parto dai più brevi, in crescendo. Ah, per farti capire il tipo di poesie… Ecco, qualcosa del genere.

Un’amica ed io,
prima del duemila,
ci sfidammo,
carichi di entusiasmi giovanili,
in una gara
– lo giuro –
d’orgasmi

(i suoi contro i miei)

e vinse lei,
per otto a
sette:
non bastarono
le sue tette
o l’accanimento orale
per staccarla
in un rush
finale.

Ma è già tanto:
alla fine,
come un santo
eiaculavo sangue –
mi scusi Dio,
ma per un attimo ho creduto
d’esser Padre Pio.

Un’altra cosa che mi ha positivamente sconvolto del libro, era la carnalità: si parlava di cose reali, morbose e concrete. C’era il coma, il cancro, gli incidenti stradali e quello che Cronenberbg, o meglio gli studiosi del cinema di Cronenberg, chiamerebbe “il sesso clinico”. In quel periodo avevo iniziato a leggiucchiare Bukoswski, avevo già letto, innamorandomi perdutamente dei suoi “Libri Di Sangue”, Clive Barker e scrittori crudi come Welsh, ma non avevo mai letto qualcuno che riuscisse a sezionare e mostrare la sofferenza, il dolore come hai fatto tu. Inutile dire che ho pensato subito “Cazzo, questo è il genere di cose che scriverei io”. La domanda ti potrà sembrare un po’ strana ma ha un senso: Poe soffriva di attacchi di panico, Lovecraft aveva paura della guerra; Zardi cosa voleva esorcizzare in “Antropometria”?

La paura della morte e del dolore, un’ipocondria che va e viene, il terrore dell’abbandono, l’empatia straziante per chi viene umiliato da malattie o deformità; ma anche una forma di ribellione alla visione manichea dell’uomo – anima e corpo nettamente separati – che è una delle più importanti cause dell’infelicità, e un’ossessione per tutte le forme attraverso le quali si esprime il desiderio. Mi piaceva l’idea di parlare di tutto questo da persona adulta, senza falsi pudori ma anche senza compiacimento. Può sembrare strano, ma credo che non ci sia nulla di morboso, nei miei racconti. La realtà è mostrata per quello che è. Sono troppo poco cattolico per riuscire ad apprezzare la morbosità.

Le ultime due domande su “Antropometria” e poi andiamo avanti: ho notato che in questo libro i personaggi sono anonimi, non hanno nomi; sono tutti e nessuno. Questa scelta, che a me ha ricordato molto il bellissimo finale di “Passione” di Bergman (zoom in avanti fin quasi a sgranare un Max Von Sydow disperato che si contorce dal dolore dei suoi sbagli e una voce fuori campo che dice: “questa volta si chiamava Andreas”). La scelta è pensata su misura per questo libro, o è un “marchio di fabbrica” che ti porti dietro?

La citazione del film di Bergman è davvero bellissima, ma ammetto che, tra le mie varie lacune che prima o poi colmerò (probabilmente quando finalmente riuscirò a recuperare il telecomando che ora è saldamente nelle mani dei miei figli), c’è anche quella di non aver mai visto un suo film. La scelta di non mettere i nomi non è una scelta a priori: dopo un po’ mi sono accorto che così “mi piaceva di più”. Kundera, in non so quale libro, diceva che per un autore è imbarazzante trovare un nome ai personaggi, e penso che ci sia del vero, in quanto dice. Con il tempo è diventato, come dici tu, un “marchio di fabbrica”, ma non mi sento vincolato a questa scelta. In “XXI secolo” il personaggio principale non ha nome; nel romanzo che sto cercando di scrivere in questi mesi, il personaggio principale ne ha una decina, tutti diversi, il che equivale a non averne neanche uno.

Nel racconto “Parlami dei finali” c’è un bell’esempio di (vero o presunto) scavallamento di campo: la scena si svolge nello studio dello scrittore. Il racconto è un dialogo a due tra la moglie e lo scrittore. Si parla del libro. Visto che anche a me obiettano sempre che tratto male i miei personaggi e i miei finali sono troppo tragici, ti chiedo: questa conversazione, questo episodio è solo un espediente narrativo, o è un fatto realmente avvenuto? E il racconto di cui si parla, quello “dei due ragazzi che si innamorano” e che doveva trasformarsi in un romanzo? Hai lasciato un grande dubbio e una grande voglia di leggere, sai? Ed è una cosa molto felliniana

Il dialogo, nella sua forma compiuta, è inventato, ma raccoglie tracce di conversazioni fatte con mia moglie. Per lei, all’inizio non è stato semplice accettare che l’uomo che aveva sposato scriveva racconti in cui una coppia, nei propri rapporti sessuali, usava, tra gli altri buchi, anche quelli del naso… Ma devo dire che alla fine sono riuscito a convincerla che il mondo delle storie che invento scorre parallelo e distante da quello in cui vivo.
Per quanto riguarda la citazione del libro al quale il personaggio del libro stava lavorando, non ne ricordavo i dettagli: sono andato a rileggere il racconto e, lo ammetto, mi sono quasi commosso. Il prossimo libro che uscirà per la Neo è esattamente quella storia. Si chiamerà “La Passione secondo Matteo” e parla di un tenore che canta Bach quando suo padre sta morendo; e mentre torna a casa in treno… Non voglio aggiungere altro. La storia è diventata più complessa, ma il nucleo era già tutto là, nel 2009, cinque anni prima che iniziassi a scriverla sul serio. Stupisce anche me, questa cosa.

Il libro successivo è un romanzo, “La felicità esiste”, edito dalla Alet. Questo è il tuo esordio nella forma lunga del romanzo. Come è stato scriverlo? Che difficoltà hai incontrato rispetto ai racconti brevi?

Scrivere romanzi e scrivere racconti sono attività profondamente diverse. I pro di un racconto: poiché la fase esecutiva impegna solo qualche ora, è possibile osare di più, sapendo che, nella peggiore delle ipotesi, si è perso solo un po’ di tempo; si vede il risultato in tempi brevi, il che è un ottimo stimolo, specialmente quando si è stanchi; la fase di incubazione può essere molto lunga ma non impegna tutte le proprie energie.
I pro di un romanzo: offre la possibilità di esprimersi con una varietà di mezzi molto maggiori – la struttura, l’intreccio, la definizione dettagliata di un ambiente, le digressioni, l’alternarsi di voci narranti; una volta completato, si ha l’impressione di aver costruito una casa, o una macchina composta da ventimila pezzi di Lego. Il contro è che mano a mano che si va avanti si ha l’impressione di scivolare in un imbuto: da un certo punto in poi, tutte le scelte fatte fino a quel momento diventano coercitive, e sparisce ogni grado di libertà. Nel caso de “La felicità esiste”, arrivato a due terzi mi sono bloccato per sei mesi, perché non avevo la minima idea di come andare avanti. E’ stato frustrante. Con i racconti una cosa del genere non succede praticamente mai.

Marco Baganis, il protagonista del libro, è un mix tra un personaggio uscito dalle pagine di un Dostoevskij (è una specie di uomo del sottosuolo con l’orgoglio di uno Stepan Trofimovich)ed il clown triste di quel bellissimo e toccante romanzo di Boll. È un personaggio chiaramente in antitesi con la perfezione di facciata della città che lo circonda. Brutto ed egoista, è una specie di bambinone provato e fiaccato dalla vita. In realtà, nel suo intimo, nella sua “tana del sottosuolo”, anche lui prova amore, pietà, compassione per gli altri e forse è l’unico, in un mondo costruito in serie, a provare delle emozioni vere e delle passioni travolgenti. È un personaggio molto sfaccettato. Come è nata l’idea di crearlo?

Mi incuriosiva l’idea di creare un personaggio negativo, moralmente riprovevole, al quale un eventuale lettore finisse comunque per affezionarsi. Guardandomi indietro, credo che le due influenze principali per questo libro siano state “Il Teatro di Sabbath” di Philip Roth e “La versione di Barney” di Mordecai Richler, anche se devo ammettere che il risultato è a qualche anno luce di distanza da questi due capolavori. Comunque “La felicità esiste” non è il primo libro in cui compare Marco Baganis: tra il 2007 e il 2008 avevo scritto “Post coitum” che racconta la storia della perdita di suo figlio; compare in un cameo ne “La gentilezza del carnefice”, il romanzone di 400 cartelle, dove, tra l’altro, viene descritta per la prima volta la SIB, la società in cui lavora Baganis; e ricompare, di striscio, ne “La Passione secondo Matteo”, quando il suo capo (presente anche ne “La felicità esiste”, e personaggio principale di questo nuovo romanzo) riceve un invito al suo matrimonio. Al momento, tutti e tre i romanzi sono inediti.
Aggiungo solo due cose: nel romanzo che sto scrivendo adesso il personaggio principale eredita i peggiori difetti di Baganis, senza condividere le sue virtù; e il nome Baganis è un omaggio al mio commercialista, e a una folle vacanza trascorsa insieme a Creta – paura e delirio a Ηράκλειο.

Da questo romanzo, un romanzo sull’inazione, l’indifferenza, la routine e la paralisi, ci si aspetterebbe un ritmo lento, una narrazione pesante. In realtà, già dall’incipit, già dalla prima pagina, c’è un ritmo galoppante, uno scorrimento perfetto. Inoltre la storia, una specie di oscuro e torbido dramma famigliare, si snoda secondo un ritmo da commedia (Baganis e la moglie, le diverse amanti, lo scambio di persone, il viaggio). Come hai scelto cosa doveva succedere a Baganis?

Quando ho iniziato a scrivere “La felicità esiste”, il personaggio principale era Sveva, che allora si chiamava ancora Valentina, una donna dall’identità sessuale complessa a causa della sindrome di Morriss della quale era affetta. Baganis, che per quanto visto sopra esisteva già, doveva fungere da catalizzatore, o da detonatore, per questa storia di definizione di se stessi. Un po’ alla volta, però, si è preso tutta la scena, e il tema dell’identità di Sveva è passato in secondo piano.
Sulla trama, in generale, ho grandi difficoltà, Il dettaglio dello scambio di persone l’ho inseguito per diversi mesi. Credo ancora che sia un escamotage al quale un buono scrittore non dovrebbe mai ricorrere. Tutto il resto è venuto fuori un po’ alla volta, scrivendo: come detto, le mie idee iniziali andavano tutte in un’altra direzione.

In questo romanzo fai una cosa che a me piace tantissimo: fai del sottile sarcasmo sui romanzi stessi. C’è una riflessione sulla neve, sul fatto che in almeno la metà dei romanzi di esordienti italiani, ad un certo punto nevica. Credi che sia uno stereotipo da intellettuali, o una situazione narrativa interessante? E tu perché hai usato la neve?

Il dettaglio della neve, che inizia a cadere mentre Baganis parla con il suo capo, davanti alla SIB, c’era fin dalla prima stesura. Durante i mesi dedicati all’editing, con Giulia Belloni, mi è capito di assistere alla presentazione di un libro dove si parla della grande nevicata scesa su Lucca qualche anno fa. Il moderatore aveva fatto notare all’autrice che la neve compare in tanti libri di esordienti, e lei non aveva saputo cosa rispondere. Per evitare di trovarmi nella stessa situazione, ho messo le mani davanti. Non saprei dire, però, perché c’era la neve, in quella scena: un cliché? Un effetto che costa poco e che fa tanto atmosfera natalizia? Un mistero anche per me.

Ultima domanda su “La felicità esiste”. Baganis, nonostante tutto quello che gli succede, riceva una specie di lieto fine, una sorta di epifania joyciana: capisce che l’immobilità si vince con l’azione, che la felicità esiste. Poi si chiude il libro, il tempo che il personaggio ci ha dedicato è finito. È uno strano finale: sembra un lieto fine, ma c’è qualcosa di rimasto in sospeso. La domanda marzulliana è: il personaggio non può parlare di felicità perché di per sé è infelice, o perché la sua vera storia, la storia della sua felicità non può essere svelata a noi lettori perché troppo reale?

L’esergo del libro dice più o meno così: ogni vita è una partita a scacchi andata a puttane dopo la quinta o la sesta mossa; da lì in poi è un incubo di coercizioni. Baganis ha vissuto la propria vita senza tenere in alcun conto il proprio futuro, e contenendo gli effetti del passato. La morte del figlio cambia la prospettiva della sua vita ma – ed è questo il senso del finale – non è detto che si sia sempre in tempo per ricominciare da zero. Non c’è lieto fine, nel libro: la felicità esiste, ma per raggiungerla bisogna fare le mosse giuste; e Baganis, per quanto sia doloroso ammetterlo, nella partita con la vita ha sacrificato i pezzi migliori. Nella prima versione di “La felicità esiste” arrivavo a farlo sposare, a fargli cambiare vita, ma era così inverosimile, questa specie di conversione, che non ce l’ho fatta a portarla a compimento. Ora credo che passi metà del suo tempo su Badoo e l’altra metà a farsi seghe guardando youporn.

Il libro seguente è un’antologia di racconti brevi, si chiama “Il Giorno Che diventammo Umani”. Perché sei tornato alla forma del racconto, dopo quella del romanzo?

Dopo l’imbuto del romanzo, avevo bisogno di muovermi all’aria aperta. Con il tempo, avevo accumulato diverse idee accomunate da una precisa visione del mondo. Mentre “Antropometria” era un disco d’esordio, dove cose molto eterogenee si mescolavano tra loro, “Il giorno che diventammo umani” è una sorta di concept album: c’è un filo conduttore fortissimo dietro tutte le storie, e precise scelte stilistiche. Non è un caso che in questo l’editore abbia scartato solo tre racconti, e solo perché si sovrapponevano ad altri più convincenti.
E’ un libro più intimista di “Antropometria”, sicuramente più triste, forse più disperato, e con meno effetti speciali. Mi sentivo più sicuro dei miei mezzi. Quando l’ho consegnato alla Neo, ho detto loro che era un libro da tagliarsi le vene e che la sua pubblicazione sarebbe stata un suicidio editoriale. I fatti mi hanno dato torto.

In questo libro descrivi una Padova strana, fosca, torbida che diventa una specie di universo narrativo a sé stante ma anche, paradossalmente, una città X, una specie di Gotham City universale. Si ha l’idea, leggendo questo libro, che potrebbe essere ambientato ovunque e, nonostante tutto, essere sempre avvincente. Come sei riuscito a creare qualcosa di così globale?

Qualsiasi città contiene, in sé, tutte le altre. Tornando a “La felicità esiste”: nella prima versione si svolgeva a Padova ma poi, per scelta condivisa con la Belloni, è stato spostato tutto a Milano. Be’, è stato sufficiente cambiare il nome di qualche via e tutto funzionava bene allo stesso modo.
Nel caso de “Il giorno che diventammo umani”, gli spazi sono quelli dei centri commerciali, mia grande passione letteraria, dei fast food, delle tangenziali, degli appartamenti nei condomini – pezzi di mondo che si ripetono uguali in tutte le direzioni.

Di questa raccolta mi ha colpito la costruzione: i personaggi cambiano radicalmente dopo un evento traumatico e tu li porti per mano fin dopo il trauma. La loro vita, nell’universo narrativo dove abitano, è la stessa o è cambiata?
Cambia. I racconti parlano di questo: qualcuno sperimenta una situazione che lo mette alla prova, e ne esce (quasi sempre) trasformato.

Questo libro è stato “paparazzato” al mare insime a Paolo Bonolis. In realtà, con Paolo Bonolis, hai anche fatto una presentazione/dialogo/serata a Roma. Come ci è finito il suo libro tra le sue mani? Cosa ne ha pensato? Che ricordo hai di lui?

Quando ho visto la foto di Bonolis con il mio libro, pensavo a un fotomontaggio. L’intelligence della Neo, però, è risalita al libraio che glielo aveva consigliato, e poi venduto: Carmelo Calì, che gestisce la Libreria Pallotta a Ponte Milvio, a Roma (quella in cui si svolge una parte del romanzo “Gli eroi imperfetti” di Stefano Sgambati). A quanto pare Bonolis, che abita da quelle parti, passa spesso in libreria in cerca di novità. Carmelo, che poi ho conosciuto, una persona davvero bellissima, ha proposto alcuni titoli tra i quali anche i miei; e a quanto pare, il consiglio è stato apprezzato. Qualche mese dopo, quando Carmelo mi ha invitato alla rassegna “Libri a mollo”, ha pensato di chiedere a Bonolis se avrebbe avuto piacere di esserci e lui, molto cavallerescamente, ha detto di sì. E’ stata una serata bella, e un po’ surreale: sembrava di essere in televisione. Lui ha un’impressionante velocità nell’elaborazione delle battute, e un grandissimo senso dell’umorismo. Mi è piaciuto. Qualche mese dopo gli ho ricambiato il favore guardando una puntata di “Ciao, Darwin”.

Il libro successivo è “Il Signor Bovary”. Questo è uno dei due tuoi libri che non ho ancora avuto il piacere/l’onore di leggere. Ce ne parli un po’?

Uscivo da mesi di prostrazione psicologica; tra le altre cose, avevo anche deciso di smettere di scrivere. Poi, una chiacchierata con Tommaso Giagni, una copia di “Lionel Asbo” ricevuta dalle mani di Martin Amis e una serata di campane tibetane alla quale mi ha trascinato mia moglie ha fatto venir fuori tutto il male che avevo dentro. L’ho scritto in quattro viaggi di andata e ritorno tra Padova e Milano, diecimila battute per ogni tratta, e per la prima volta nella mia vita mi sono reso conto di essere uno scrittore. Sapevo quello che stavo facendo, cosa volevo ottenere – libero da qualsiasi vincolo morale o estetico: puro estratto di me stesso. Scriverlo è stata una delle esperienze più belle degli ultimi anni. Parla di una partita a scacchi tra un uomo, sua moglie, un’amante e suo marito. Se dovessi consigliare a qualcuno un mio libro, partirei sicuramente da questo.

E siamo arrivati a “XXI Secolo”, il romanzo con cui sei arrivato semifinalista al Premio Strega di quest’anno. Iniziamo dal principio: come è venuta l’idea di questo romanzo, quando è iniziata la stesura e quanto tempo ci è voluto a scriverlo?

L’idea di fondo – un uomo che scopre che la moglie morta lo tradiva – risale a due o tre anni prima. Nella prima stesura, il personaggio principale era l’amministratore delegato della SIB e la sua storia si intrecciava con il matrimonio di Baganis. Arrivato a metà del libro, portato avanti tra mille dubbi, ho letto “Sparire” di Fabio Viola e ho capito che non avrei mai voluto leggere il libro che stavo scrivendo – troppo convenzionale. L’ho buttato, con la convinzione di aver fatto bene, e ho smesso di scrivere per mesi. Poi è arrivato “Il signor Bovary”; subito dopo, ho iniziato a scrivere “XXI secolo”, il cui titolo iniziale era “L’amore fa male” o qualcosa del genere. L’idea di introdurre la distopia è arrivata quando ero a pagina tre, e mi è sembrata subito necessaria per quello che volevo dire. In sei mesi ho finito questa seconda stesura; poi sei mesi di editing con Biasella, parola per parola. In totale, due anni di lavoro per un libro di centocinquanta pagine.

In questo romanzo si descrive un futuro prossimo in Italia: una paese in declino, una situazione politica al tracollo. Il tutto, però, è di sottofondo. Ogni tanto, leggendo il tuo romanzo, si ha l’idea di leggere un Richard Matheson. Le tue “profezie” da dove derivano? E perché, in un mondo al collasso, i depuratori d’acqua sono così importanti?

Gli scrittori, fortunatamente, non sono profeti, e quando hanno creduto di esserlo hanno sempre cannato. Parlerei, piuttosto, di presagi: come essere umano sono immerso in questo mondo, ne avverto la pressione, e la trascrivo su carta. Ma sul futuro non ho affatto le idee chiare.
L’idea di far vendere depuratori d’acqua al protagonista è nata per scherzo, come piccola vendetta nei confronti di un tizio che, dopo una lotta corpo a corpo combattuta nella cucina di casa mia, mi ha convinto a comprare un rene artificiale che filtra l’acqua che bevo, in 24 comode rate. Andando avanti con le pagine, questo lavoro ha assunto un valore quasi simbolico. Il secondo titolo del libro, prima di approdare al definitivo “XXI secolo” era “Come acqua”.

In ogni tuo libro, al protagonista, succedono cose strane. Qui si ha un padre di famiglia, un marito la cui moglie entra in coma, andando avanti si scoprono segreti indicibili. Tu sei sposato ed hai due figli. Le paure, le ansie, le ossessioni di cui parli sono reali o esagerate?

Tutti i libri parlano di cose strane, a ben vedere, a partire dall’Iliade e l’Odissea. Penso spesso che uno scrittore dovrebbe assomigliare a un tizio che entra in un bar e dice: “ragazzi, sentite questa storia che ho sentito, è davvero incredibile”. Tutti i racconti si basano su coincidenze straordinarie, e fatti inauditi: chi vorrebbe sentir parlare di un uomo che si alza e passa un’intera giornata senza che gli succeda niente?
Figli e matrimonio, quindi famiglia. Dal punto di vista narrativo, sono lo spazio nel quale mi muovo. Trovo che sia il luogo ideale nel quale ambientare commedie e tragedie – contraddizioni, sentimenti forti, desiderio e abitudine, prigioni e opportunità. C’è tutto quello che mi serve.

Questo libro è arrivato al Premio Strega. Come hai ricevuto la notizia?

Nell’unico modo con il quale si ricevono le notizie nel ventunesimo secolo: via whatsapp. Era una domenica pomeriggio, ero in camera, e Angelo mi ha scritto che il libro era stato candidato. Lì per lì non ho capito che la mia vita stava subendo uno scossone inimmaginabile. La notizia del passaggio tra i dodici finalisti, invece, è arrivata via sms da Renato, un vecchio amico. Di questi tempi, funziona così.

“XXI Secolo” è il vincitore morale del Premio Strega e il vincitore sui social network. Come è cambiata la tua vita di scrittore, dopo il Premio Strega?

Ti ringrazio per questo “vincitore morale” che mi fa davvero piacere – mi ricorda che c’era qualcosa di simile nella biografia di Francesco Salvi, nella quarta di copertina del suo unico romanzo: “vincitore morale di Ballando con le stelle”, c’era scritto. La mia vita non è cambiata di molto: continuo a lavorare come un dannato sul Business Process Management, una volta mi è capitato di essere riconosciuto in una metropolitana, ho risposto a diverse interviste, sono andato a Radio Fahrenheit (oggi ho saputo che “XXI secolo” è stato nominato “Libro del mese” di agosto), ma scrivo meno di prima, e continuo a considerarmi un simpatico bluff.

In realtà, l’ultima cosa che hai pubblicato si chiama “Il Principe Piccolo” ed è un ebook. Parlacene!

E’ un libro che chiude, idealmente, la “trilogia delle corna”, iniziata con “Il signor Bovary” e continuata con “XXI secolo” e, giuro, sarà il mio ultimo libro sul tradimento. E’ un racconto lungo – ottantamila battute – che parla d’amore. E’ la cosa più buona, e più dolce, che abbia mai scritto, e rappresenta la mia prima esperienza con un grande editore. Mi spiace che sia stato coperto dall’ombra lunga di “XXI secolo” – forse avrebbe meritato un po’ di fortuna in più.

Ok, ultime due domande: credi che in Italia, nonostante tutto, ci sia ancora una cultura letteraria forte? E se sì, quali autori “nuovi” consiglieresti per avere un quadro delle novità Italiane e degli autori da seguire?

Non so valutare la forza della cultura letteraria italiana, e, a dire il vero, non saprei nemmeno dire se ce ne sia mai stata una; di sicuro, recentemente ho letto molti buoni libri scritti da giovani autori italiani. Con la certezza di dimenticare quelli che mi sono più cari, ne dico qualcuno: Agostinelli, Aloia, Bonafini, Castiglione, De Paolis, De Poli, Drago, Giagni, Lepri, Pezzoli, Sangiorgi, Santarossa, Sgambati, Specioso, Tetti, Vanin, Viola oltre a qualche nome già affermato, come Covacich e Genovesi. Mi capita anche di leggere qualche inedito; tra questi, quello che mi ha impressionato di più è un romanzo di Mauro Maraschi, che spero di vedere presto pubblicato.

Tu sei uno di quelli che ce l’ha fatto: sei partito da zero, da un blog, sei riuscito ad essere pubblicato e sei arrivato al Premio Strega, un premio importante nel panorama italiano. Ad uno scrittore esordiente cosa consiglieresti? Cosa dovrebbe e cosa NON dovrebbe mai fare?

Non credo che il mio percorso sia esemplare, che possa indicare una qualche strada: sono successe un po’ di cose, alcune per caso, altre in modo del tutto involontario, e non saprei davvero dire se dietro tutto questo ci sia una ricetta che possa essere replicata. Un consiglio, comunque, lo darei: cercare la propria voce, quella che rappresenta fino in fondo il proprio modo di intendere la scrittura, al di là di qualsiasi moda letteraria, gusto del momento, aspettative dei lettori. E se c’è una cosa che non bisogna mai fare, be’, credo sia quella di prendersi troppo sul serio: di questo sono sicuro al cento per cento.

5 Risposte a “L’Elisir delLo Strega: tutto quello che avreste voluto chiedere a Paolo Zardi (un’intervista di Alessandro Di Giuseppe)”

    1. Wow, non so cosa dire. Grazie mille. Adesso vi mando subito una email al vostro indirizzo.

      Alessandro Di Giuseppe

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