Palinsesto (un racconto di Alessandro Di Giuseppe)

“Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra individui, mediato dalle immagini ”
Guy Debord- “La Società Dello Spettacolo”

“Io credo che ci vorrebbero un miliardo di canali televisivi. Almeno uno a testa”
Enrico Ghezzi

Roberto sospirò, si fregò gli occhi, scalò la marcia e si incolonnò nella fila di auto che doveva passare la dogana. L’occhio della microcamera incassata nel vetro del parabrezza si svegliò, fece una panoramica sull’interno della sua automobile e poi si fermò su di lui. Roberto se ne accorse ma non la guardò. Era una regola del suo consulente di immagine e del direttore generale dell’emittente televisiva che curava il suo format, quella di non guardare mai in macchina.
“La tua vita è già interessante così…” gli aveva detto il direttore di rete, il pomeriggio del loro terzo appuntamento, il giorno della firma del contratto.
“…Non guardare mai in macchina. MAI! A meno che, come è scritto nel contratto, tu non debba parlare dello sponsor. Ma per quello non ti preoccupare: questo…” ed aveva tirato fuori una specie di cellulare pieno di tasti, lucine, un paio di lunghe antenne nere ed un paio di auricolari.
“…Ti suggerirà le cose da dire, quando dirle, che tono usare e, soprattutto, che telecamera guardare. Sai, non vorrei che con tutti i soldi che abbiamo speso, tu ti mettessi a fare pubblicità sul canale di un altro” poi gli aveva consegnato il cellulare, una copia del contratto firmato e le chiavi dell’appartamento dove viveva adesso. Sua moglie l’aveva aspettato fuori dal palazzo. Quando era uscito dalla porta scorrevole, aveva fatto venticinque piani in ascensore prima di arrivare all’ingresso, lei l’aveva guardato da dietro il finestrino della loro vecchia macchina, una Fiat Punto grigio metallizzato, con lo sguardo supplichevole. Lui aveva sorriso, aveva tirato fuori la copia del contratto, aveva sventolato le chiavi e lei si era calmata. Si erano sistemati: era il periodo in cui, per riuscire ad avere un programma tutto tuo, dovevi fare cinque colloqui ed aspettare che ti andasse bene. A lui era andata bene. A lui era andata molto bene: lui, sua moglie e sua figlia, avevano tre canali e i loro programmi facevano, complessivamente, uno cher di 7.5 a giornata. Era una vita interessante, la loro. La fila di macchine iniziò a scorrere. In un paio di minuti fu il suo turno. L’uomo nella guardiola, un quarantenne sovrappeso, lo riconobbe e sorrise.
“Lei è fortunato…” gli disse. Aveva gli occhi eccitati e invidiosi.
“…A casa l’aspetta qualcosa di veramente bello” poi gli aprì il cancelletto e lo fece passare. Roberto sospirò. Sua moglie aveva un programma di cucina, due fasce orarie, ora di pranzo ed ora di cena. Forse Giovanna, era così che si chiamava la donna che aveva sposato, gli aveva preparato una cena diversa. Forse il tipo nella guardiola si riferiva a quello. Non lo sapeva. Non ne aveva la più pallida idea. Controllò l’orologio sopra l’autoradio e ripartì.

Il casermone dove abitava, un blocco di cemento di trenta piani, sei appartamenti per piano, con i terrazzini che sporgevano sul cortile interno e le antenne piantate sul tetto, si chiamava “Condominio Silvio Berlusconi”. Roberto non sapeva chi fosse Silvio Berlusconi, non sapeva se fosse buono o cattivo. Sull’opuscolo che avevano trovato sul tavolino della cucina, il primo giorno che avevano preso possesso della casa, c’era una foto di un anziano signore con i capelli neri, vestito in modo classico, che sorrideva in una foto con altre persone, tutte vestite eleganti, che lui non aveva mai visto. Sotto la foto, c’era la storia di questo Silvio Berlusconi: imprenditore, editore e uomo politico, era riuscito, nel periodo del boom delle tv private, a diventare uno degli uomini più influenti del mondo; proprietario di una squadra di calcio in serie A, non aveva esitato a dare, alle vittime di un disastroso terremoto che aveva colpito il centro Italia, un alloggio, un tetto sotto cui ripararsi. Questo era quello che c’era scritto sull’opuscolo informativo. Questa era tutto quello che Roberto sapeva su Silvio Berlusconi. E gli basta.
Per entrare nel “Condominio Silvio Berlusconi” doveva far scivolare il Badge dentro la macchinetta fissata al muro vicino alla porta, aspettare che quella la leggesse, che la lucina sopra la porta a vetri diventasse verde e si aprisse la porta. Il “Condominio Silvio Berlusconi” era uno dei tanti, ce n’erano quasi centomila, che affollavano quel quartiere, quella città nella città. Si chiamava “Reallity Town”, la città della realtà. Era grande, più o meno, come Roma, aveva lo stesso numero di abitanti, le strade erano tutte uguali tra di loro, c’era un ripetitore ogni quattro chilometri, telecamere ovunque e consulenti di immagine che ti sceglievano vestiti e trucchi. Tutto si basava sulla pubblicità, sullo sponsor. Il condominio alla destra del suo, era intitolato ad Enzo Tortora. Quello a sinistra, a Maurizio Costanzo. Roberto non sapeva chi fossero e non gli interessava. Fece scivolare il Badge nella macchina, lo lesse, la porta si aprì, lui scivolò nel corridoio e chiamò l’ascensore. Prima che arrivasse, il cellulare gli vibrò, lesse il messaggio: una volta entrato in quel cubo d’acciaio avrebbe dovuto guardare la camera 1, era quella incassata sopra il tastierino numerico, e parlare due minuti della “Business Ties”, l’azienda che gli riforniva la cravatte. Roberto sospirò. Non gli piaceva fare quelle cose, ma in qualche modo doveva pur campare.

L’appartamento dove viveva con la sua famiglia, aveva la struttura che aveva ogni appartamento del quartiere: due stanze da letto, cucina, salotto, sala da pranzo e sala riunioni. Tutti gli ambienti erano pieni di telecamere, luci, faretti, cavi e gobbi tranne la sala riunioni. Quella era la stanza in cui, una volta alla settimana, si decideva la strategia di marketing della settimana successiva. Quando entrò, quella sera, sua moglie stava parlando con una delle sei telecamere che c’erano in cucina. Quando sentì la porta chiudersi, fece qualche battuta, strizzò l’occhio sinistro e mostrò la teglia che aveva preparato alla macchina da presa. Poi la posò sul bancone ed andò a salutarlo.
“Come è andata a lavoro?” gli chiese dopo averlo baciato. Il direttore di rete aveva deciso che dovevano baciarsi ogni volta che lui usciva per andare a lavoro e tornava a casa. A Roberto non dispiaceva la cosa. A sua moglie sì. Ma sua moglie aveva un motivo: teneva quattro programmi sul make up e quel bacio mandava a monte tre ore di lavoro davanti allo specchio.
“Solita vita da ufficio: scartoffie, pratiche, colleghi che non presentano il lavoro in tempo. Ma, nonostante tutto, anche oggi ce l’abbiamo fatto!” Roberto era l’unico, nel suo nucleo famigliare, a lavorare fuori casa. Era stato un’idea di creativi. “Affiancare ad un uomo vero, che fa lavoro di ufficio come molti telespettatori, le telecamere della nostra rete” aveva detto durante una riunione, “crea interesse e fidelizza il pubblico. Devi continuare con il tuo lavoro”. E lui l’aveva fatto. E adesso c’erano otto telecamere che lo seguivano anche a lavoro. Era una vita dura, ma gli piaceva.
“Come sta la nostra bambina?” chiese a sua moglie. Sul contratto che avevano fatto firmare a Lorenza, sua figlia, c’era scritto che né lui né sua moglie potevano dire il suo nome: era marchio registrato ed apparteneva agli avvocati del network che si occupava del suo spazio televisivo.
“È in camera sua…” rispose sua moglie guardano in macchina.
“…Cara, vieni a salutare tuo padre!” disse e poi si fermò, la telecamera strinse sul suo mezzobusto. Lorenza uscì dalla sua cameretta. Aveva quasi dodici anni ed aveva tre programmi televisivi: “Gioca con Lorenza”, in cui lei provava dei giochi e li spiegava ai bambini; “Il pomeriggio studio con la tua compagna di classe Lorenza”, in cui faceva i compiti e spiegava le materie ai suoi coetanei e “A nanna con Lorenza”, in cui leggeva delle fiabe e cantava una canzoncina ai bambini che la seguivano. Tra qualche mese, secondo le direttive dei direttori di rete, sua figlia si sarebbe dovuta fare un lifting e iniezioni di botox. Se non l’avesse fatto, avrebbe perso il suo target.
“Ciao, papà!” gli disse con finto entusiasmo e lo abbracciò. Quell’immagine, loro tre che si abbracciavano, era stata usata come immagine per la campagna a favore della sperimentazione animale. Era stata un successo.

La cena passò come sempre: qualche battuta di dialogo, risate, sorrisi in macchina e qualche sponsor recitato. Dopo cena sua moglie aveva caricato la lavastoviglie, era la sua rubrica del dopo cena, e si era chiusa in bagno. Lui era rimasto seduto in sala a guardare la tv. Era una direttiva del network: lo faceva sembrare più vicino alla fascia di età a cui si riferivano i suoi programmi. Sua figlie si era chiusa in camera. Tra mezz’ora doveva fare il suo ultimo show e doveva prepararsi con il suo maestro di dizione. Alle dieci e mezzo di sera, erano tutti nel letto. Roberto, sua moglie e sua figlia. Sua moglie stava spiegando, guardando una delle due telecamere puntate sul letto, come preparare una maschera di bellezza. Lui aveva preparato due bottigliette d’acqua. Era stata una sua idea: una notte, mentre dormiva, si era svegliato per andare al fare la pipì. L’idea era piaciuta e adesso doveva farlo tutte le notte e doveva fare una riflessione prima di tirare lo sciacquone. L’idea era quella di superare il programma del mattino di Mattia. Il programma del mattino di Mattia era ineguagliabile. Roberto lo guardava tutte le mattine. C’era Mattia che si faceva la barba e commentava le notizie guardano lo specchio del bagno. Magnifico. Una giorno, sarebbe arrivato a quel livello. Sua moglie finì il suo programma e spense la luce sul comodino. Lui si girò sul fianco sinistro e si mise a guardare il muro. Tra due giorni lui e sua moglie avrebbero dovuto fare l’amore: avevano una convenzione con un’azienda che produceva preservativi e con una che produceva giochi erotici. L’idea gli piaceva. In fin dei conti, pensò, la sua vita non era male, anzi, gli era andata bene. Gli era andata molto bene…

2 Risposte a “Palinsesto (un racconto di Alessandro Di Giuseppe)”

  1. Hai chiesto di leggere e commentare… Bene, cambia mestiere allora!
    L’agricoltura non sarebbe male come idea…

    1. Grazie mille per il consiglio, lo prenderò in seria considerazione 🙂 Sai, in realtà coltivarmi da solo il mio orticello è sempre stato uno dei miei sogni. Ma poi ci vogliono i soldi per comprarlo e il tempo di starci dietro che non ho. Ma visto che tra un paio d’anni finirò l’università, magari mi trovo un lavoretto e corono il mio sogno. Mi segno il tuo indirizzo e maiL così, in caso, quando nascono i pomodori te ne spedisco una cassetta. 😉

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