“Quando Leroy cavalcò la grande onda, io c’ero!” I sogni, le speranze, la vita e la disillusione di una generazione in un solo giorno, in “Un Mercoledì Da Leoni” (una recensione di Alessandro Di Giuseppe)

Una persona molto più intelligente di me, una volta scrisse “tu, uomo libero, amerai sempre il mare”. Questa frase, che molti di voi, in epoca digitale, avranno sicuramente letto giustapposta ad un culo, un paio di tette o un paio di gambe nude su una spiaggia (quella moda di farsi le foto alle gambe non l’ho mai capita, sinceramente), a me ha fatto sempre abbastanza cagare. E non per il concetto di libertà- anche se la libertà, per sua natura, è vincolata da leggi e quindi, da un certo punto di vista, limitata e limitante. Ma questo discorso non vi interessa- ma per il concetto di mare. Adesso, capisco che il mare è bello, è romantico, è vasto e sterminato, ma io ce l’ho avuto sempre un po’ sullo stomaco. Forse perché ci abito vicino, forse perché non so nuotare, forse perché mi disturba il fatto che la mia città- che è chiusa, brutta e fatta di gente che si lamenta senza fare nulla per cambiare le cose- si riempie soltanto d’Estate, di gente inutile che si raduna sulla spiaggia a perdere tempo. Vabbé, qualunque sia la motivazione, a me il mare non piace e non è mai piaciuto particolarmente. Quindi capirete che accostare un concetto così alto, così puro ad una cosa che odiavo, mi faceva girare i gioielli di famiglia così tanto vorticosamente, che Les Gold ci avrebbe fatto una fortuna rivendendoli. Detto ciò, un’altra cosa che non ho mai voluto fare e non ho mai capito è la passione per lo sport. Per me, e lo dico sapendo che, molto probabilmente, qualcuno di voi la prenderà a male, passare ore a guardare qualcuno giocare ad uno sport, pagare una montagna di soldi per abbonamenti, sciarpe, scarpe, magliette, calzini, borsoni, polsini, DVD di una squadra o di uno sport, l’ho sempre trovato inutile. Attenzione, non dico che non ho mai avuto passione per lo sport- da bambino tifavo Juventus ma poi, raggiunti i dodici anni, ho lasciato perdere tutto- e che chi ce l’ha non ha capito un cazzo della vita, dico soltanto che a tutto bisogna dare il giusto peso e chiamare le cose con il proprio nome. Vi faccio un esempio: quando sento un commentatore sportivo dire la frase “quel giocatore è un regista” oppure “un dottore del rigore” o “un laureato del centrocampo”, io mi incazzo come una belva. Sì, lo so, sembrerò elitario (e forse, da un certo punto di vista, lo sono) ma le parole, come diceva bene il nostro amato Nanni Moretti, sono importanti e vederle usate a sproposito, mi fa veramente arrabbiare. Dette queste due cose molto importanti- l’odio per il mare e l’odio per lo sport- capirete che da solo, in modo pregiudizievole, mi sono precluso tutta una lunga serie di film, maratone di telefilm, libri, special televisivi e chi più ne ha più ne metta. La cosa che odiavo, quando si parlava di prodotti di fiction che riguardassero lo sport, era il fatto che fossero concepiti come se tutti, nel mondo, dovessero necessariamente basare la propria vita sullo sport, come se fosse una questione di vita o di morte. Pensavo di aver ragione, ma poi ho pensato. E pensando ho capito che uno dei miei film preferiti da bambino era “The Blues Brothers” e mi sono detto: “ma con la musica sì, e con lo sport no?”. Allora ho dovuto verificare ed ho guardato “La Guerra degli Antò”. Adesso, questo non è un film che parla di musica ma, da buon vecchio punkettone, doveva piacermi per forza. E invece, udite udite, anche quello non mi è piaciuto: l’ho trovato banale, troppo giovanilistico ed inutile. Non ho nulla contro le persone che quel film lo amano, ma a me non è piaciuto. Mi è caduto un mito e la mia puzzina sotto il naso, quella che mi fa storcere il naso quando qualcuno dice che ha amato un film uscito dopo il 2000, se n’era andata. Che avessi sbagliato tutto? Dovevo verificare: ho cercato, tra la collezione di DVD di famiglia un film che parlasse solo ed esclusivamente di sport. L’ho trovato, l’ho guardato e ho capito che, nella vita, non avevo capito un cazzo. Quel film era questo:

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TITOLO: Un mercoledì da leoni

ANNO: 1978

REGIA: John Milius

SCENEGGIATURA: John Milius

CAST: Jan-Michael Vincent, William Katt,Gary Busey, Patti D’Arbanville,Robert Englund, Lee Purcell

TRAMA:

Narrato dalla voce di Fly (Robert Englund), il film racconta la storia di tre ragazzi ragazzi- Matt Johnson (Jan-Michael Vincent), Jack Barlow (William Katt)e Leroy Smith (Gary Busey)- che, sul finire degli anni ’60, tra una festa e l’altra, tra una ragazza e l’altra, sono riusciti a diventare delle piccole icone, dei piccoli idoli nel mondo del surf locale. Tuttavia, nonostante il talento, la grande amicizia che li lega e anche la nascita di qualche bambino, il collante che li teneva uniti, rischia di rompersi. Quando poi, riusciti a ritrovare l’amicizia, ci si metterà la guerra a tenerli lontani, la loro amicizia continuerà a vivere? E riusciranno, insieme, a cavalcare, su una tavola da surf, la Grande Onda?

Scritto e girato nel 1978, alla fine della grande illusione degli anni ’70 e prima della fine dell’amore libero (nel 1980 una nuova malattia, l’AIDS, fa la sua tragica comparsa nel mondo), “Un mercoledì da leoni” assume i tratti di un “favolistico” e spensierato romanzo di formazione. La vicenda si snoda attraverso un lungo arco narrativo (dal 1964 al 1975) di cui, a noi spettatori, è regalato “il meglio”: l’estate e i giorni ventosi in cui, in ogni stagione, i surfisti cercano onde. Questo film, ambientato in una piccola cittadina e che narra le storie di una piccola comunità, riesce dove molti film, cosiddetti “generazionali”, hanno fallito e continuano a fallire: evita l’immedesimazione facile con i personaggi- a tutti piace fare festa, ubriacarsi, divertirsi e fare sesso- riuscendo a farci entrare nella storia, ma con la giusta distanza. Se è infatti vero che, la prima parte, il primo segmento, potrebbe sembrarci abbastanza banalotto, dopo i primi dieci minuti, avremmo capito che stiamo entrando in qualcosa di più grande. L’amicizia nel gruppo, infatti, inizia a logorarsi, le strade si dividono e solo a fatica, abbassando la testa, con molta umiltà, i tre riescono a tornare insieme come gruppo. Già dalla fine della prima parte, quindi, il film assume carattere e non si risolve nel solito vecchio film fatto di giovani, scazzottate e belle fiche: i personaggi crescono ed iniziano ad affrontare i problemi del mondo degli adulti (la responsabilità, il lavoro, la famiglia, il matrimonio, i lutti) e ne rimangono segnati rischiando di perdere la cosa più preziosa che sono riusciti a costruire: la loro amicizia.

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Prima ho detto che si tratta di una favola. Cosa sono le favole? Le favole sono racconti che, attraverso archetipi e topoi, aiutano a capire la vita e a dare insegnamenti. Nelle favole non manca mai, oltre che ad una sana dose di sadismo, anche dell’ironia. Ed è in questo modo che il film narra la vicenda della Guerra in Vietnam: con ironia. Adesso, di film sulla guerra in Vietnam ne hanno fatti un milione e, praticamente in ogni film fatto dagli anni ’70 in poi, c’è un riferimento (non ci credete? C’è anche in “Pulp Fiction”) a questa guerra. Questo film non si esime, ma lo fa con stile: ci vengono mostrati tutti i “trucchi”, le strategie usate dai giovani per non essere arruolati. Questa è una parte esilarante: c’è chi si finge pazzo e chi si veste come Hitler e dice che “ci sono troppi negri e troppi ebrei in questo esercito, io non mi arruolo!”. Ma il divertimento dura poco: uno dei tre viene reclutato e spedito in Vietnam. La vicenda non è trattata in modo patetico. Non è un film strappalacrime: è una pietra miliare. E quell’ultima onda, l’ultima onda che li unisce (per sempre?) potrebbe essere di tutto: da un concerto, a una partita di tennis a un viaggio. Quello che li lega è altro. Non a caso Leroy, parlando del surf, dice una frase bellissima: “non si trattava solo di surf, era tutto il resto che ci piaceva”. Ecco, in questa frase, c’è il senso del film: non è un film sul surf o solo su un gruppo di amici, è un film su tutto il resto

Voto: 8

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Storiella: il personaggio di Leroy Spaccatutto, è ispirato ad un personaggio vero. Ma, nella realtà, era molto più hippie e schizzato del film