“…Ringraziamo il Signore per la fine del nostro digiuno!”. “We are what we are”: un gioiellino per pochi eletti (di Alessandro Di Giuseppe)

Uno dei miei registi preferiti, ormai lo sanno anche i muri, è Lucio Fulci: il terrorista di generi.
Amo così tanto Lucio Fulci, che la mia tesi di laurea triennale, l’ho scritta proprio su di lui.
Ecco, Lucio Fulci, in tempi non sospetti-si parla degli anni ’80 e ’90-, durante un’intervista diventata ormai famosa (“la notte americana del dottor Fulci” di Marcello Garofalo e Antonella De Lillo. Italia. 1994), disse una cosa interessante: “in America, ormai, non si fanno più film originali: fanno soltanto remake. Solo remake!”.
Ecco, la questione del remake, da che cinema è cinema, è sempre molto ma molto spinosa: ci sono i cultori che non li vogliono, ci sono gli spettatori che ne rimangono schifati e c’è chi vorrebbe vedere soltanto remake al cinema.
Io, in quest’ottica, mi posiziono al centro. Se è vero, infatti, che ci sono alcuni film di cui NON SI DOVREBBERO FARE remake (due esempi tra tutti, “2001:Odissea nello spazio” e “Sciopero”), alcuni remake li ho molto apprezzati (la versione “moderna” di “I spit on your grave” è molto ben fatta. Per non parlare de “La cosa” di John Carpenter e de “La mosca” di Cronenberg)e di alcuni sono rimasto molto ma molto deluso (“Carrie” poteva essere veramente una BOMBA ma è stato una merda). Mi sembra anche inutile dire che, come molti di voi, anche io attendo impaziente il remake di “It”.
Ci sono poi quei remake che servono al cinema: fare il remake di un buon film che non ha avuto il giusto riscontro di botteghino, credo che sia un’operazione rimitologizzante abbastanza interessante.
Ma perché vi sto parlando dei remake?
Il motivo è semplice: il film di cui parliamo oggi è un remake.
Di che film stiamo parlando? Semplice, di questo:

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TITOLO: We are what we are

TITOLO ORIGINALE: Somos lo que hay

REGIA: Jim Mickle

REGIA ORIGINALE: Jorge Michel Grau

CAST: Bill Sage, Julia Gamer, Ambyr Childers, Kelly McGillis

ANNO FILM ORIGINALE: 2010

ANNO REMAKE: 2013

TRAMA:
La famiglia Parker, apparentemente la classica famigliola di una cittadina qualunque dell’America del sud, dopo la tragica morte della madre, attraversa un periodo critico. La figlia maggiore, Alyce, è “costretta” a diventare una donna e una mamma prima del tempo. I Parker, fondamentalisti religiosi, stanno praticando un lungo periodo di digiuno e di preghiere. Ma cosa succede quando nella cittadina, già sconvolta dalla sparizione di due ragazze, un’altra ragazza scompare nel cuore della notte, mentre sta tornado a casa con la sua automobile? Cosa c’entrano i Parker? E perché  il medico legale della contea, dopo l’autopsia fatta alla signora Parker, ha riscontrato i sintomi di una malattia che si contrae solo mangiando carne umana?

Interessante e coinvolgente,” We are what we are” è la versione statunitense di un film uscito nel 2010 : “Somos lo que hay” del regista  messicano Jorge Michel Grau. La cosa che affascina della pellicola, oltre al comparto tecnico-l’ottima fotografia di Ryan Samul riesce a rendere glaciale e misterioso ogni ambiente ripreso-, è il tema di fondo: se la pellicola parte come un classico giallo alla “Twin Peaks”, la storia presto si ramifica, si contorce e diventa un vero e proprio piccolo gioiello. Se, infatti, tutta la prima parte sembra suggerire una deriva del film vagamente già vista-per tutta la prima parte sembra di assistere a “Le colline hanno gli occhi” di Wes Craven ma da un’altra prospettiva-, più o meno da metà film si assiste al twist che ribalta e reinterpreta il film.
I temi tirati in ballo, come qualsiasi buon film horror di serie b, sono tanti e intensi: la famiglia vista come una specie di gabbia, di camera stagna in cui i problemi non possono uscire e che, presto, finisce per diventare soltanto una grande bolla di cemento da cui è impossibile uscire; il diventare sè stessi nonostante i veti e i divieti di una società/mondo claustrofobica; scoprire la propria vera vocazione e, ultimo ma non ultimo, riuscire a superare l’adolescenza.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La cosa che però, in questa specie di calderone ottimamente condito, sembra interessare di più il regista e lo sceneggiatore è la questione del perdono, dell’essere accettati da un dio che, per praticamente tutto il film, è invocato, aspettato, cercato ma che non compare mai. E, soprattutto, che non fa mai vedere il suo “volto pieno di compassione e misericordia”.
Le critiche mosse nei confronti di una chiesa vuota di significato sono lampanti: il padre della famiglia, come uno di quegli strani invasati che sembrano usciti direttamente dalla Jonestown più bigotta, sembra avere in testa soltanto il peccato e l’espiazione e i suoi lunghi silenzi, i suoi lunghi digiuni sembrano dirci che, più si soffre, più Dio ci vuole bene.
Sofferenza, digiuno, espiazione, peccato originale.
Letta in un’ottica di liberazione (anche sessuale volendo: cosa c’è di più sessuale che mangiare, che ingurgitare qualcosa e renderlo parte del nostro corpo?), anche il twist del plot sembra essere molto più che una semplice trovata di sceneggiatura per tenere incollate le persone per un’altra mezz’oretta allo schermo o al monitor. Se questa è la vita che abbiamo, se questo è il solo tempo che ci viene concesso su questa terra, perché dovremmo chiedere perdono per quello che siamo? We are what we are, recita il titolo e forse è questa il messaggio di fondo profondo del film: nonostante tutte le limitazioni, nonostante tutte le sovrastrutture-il film racchiude un’ottima critica ti stampo marxista nei confronti di un autorità-, diventare quello che siamo è l’unica cosa che ci porterà a vincere quella che, secondo tutte le persone “profonde”, è la battaglia più grande: quella che facciamo con noi stessi allo specchio, tutte le mattine.

Se personalmente non sono d’accordo con questa teoria-la battaglia allo specchio la perdi sempre, che tu sia l’uomo più onesto del mondo, o che tu sia Pablo Escobar. La vita è una battaglia persa in partenza: qualsiasi cosa tu faccia, alla fine morirai-, il fulcro del film, con la violenza delle sue scene di tensione-una tensione che non si basa sul meccanismo degli spaventi ma sul coinvolgimento con i personaggi mostrati-e la crudezza delle sue scene gore, sembra tornare alla metafora pasoliniana di “Porcile” del corpo e delle ossessioni e la cannibalizzazione sembra quasi il monito biblico “i morti seppelliscano i loro morti”.

Film magnifico!