Test D’ingresso (un racconto di Alessandro Di Giuseppe)

Quando Howard aprì la porta dell’aula, la lezione di algebra era iniziata da un quarto d’ora.
“Ah, buongiorno, Signor Fesberg!” era la voce del professor Young
“Le faccio i miei complimenti…” disse prima di controllare l’orologio appeso vicino alla lavagna.
“…Lei ha ufficialmente battuto ogni suo record di ritardo in questo corso. Il suo premio…” dopo aver abbandonato l’eserciziario di algebra sulla cattedra, scarabocchiò qualcosa su un foglietto e lo staccò dal blocchetto dov’era attaccato.
“… Sono due ore in più in aula 3. E adesso, se vuole essere così gentile da ritirare il premio…” e sventolò la punizione verso Howard.
“…Vorrei continuare con la lezione”. Howard si avvicinò alla cattedra, prese il foglietto, se lo fece sparire in tasca e si avvicinò al suo banco. Due ore in più in questa prigione di merda, pensò mentre il professor Young ricominciava a dettare, c’è qualcosa che potrebbe andare peggio?. Poi qualcuno, molto probabilmente Scott Collins, gli sputò, soffiandoglielo sul collo, un pezzettino di carta masticata. Howard si pulì, alzò il medio alla cieca alla sue spalle ed iniziò a prendere appunti.

“Sei in ritardo di due ore, lo sai?” gli sibilò nell’orecchio Owen Brown, l’omone grasso, con i capelli secchi e il grembiule sporco di grasso che lavorava in cucina.
“Lo so…” sbuffò Howard mentre indossava la divisa.
“…Ma sono dovuto rimanere a scuola” concluse, prima di ficcarsi il blocchetto per le ordinazioni e la matita nel taschino della camicia.
“Sei dovuto rimanere a scuola? Ma tu hai preso un impegno con me e devi rispettarlo!” rispose Owen prima di schiacciare un paio di hamburger sulla piastra accesa
“Comunque non ci sono problemi per me: due ore in meno di lavoro, due ore in meno di paga. E adesso vai in sala” aggiunse prima di rimettersi a cucinare. Howard sbuffò ed entrò nel salone pieno di tavoli che era l’interno dell’Horny Bull. L’idea di lavorare in una tavola calda era stata di suo padre. “Ti insegna il valore del denaro, del lavoro e poi potrai pagarti da solo l’università”. Lui l’aveva messa in questi termini. In realtà i soldi che prendeva li spendeva quasi tutti per la macchina.
“Cameriere!!” gli urlò la cinquantenne seduta al tavolo vicino alla cassa.
“Sono seduta da quasi mezz’ora e non hanno ancora preso la mia ordinazione. Ci muoviamo, per favore?” e lo guardò con uno sguardo freddo, cattivo, da donna in menopausa.
“Arrivo subito” le rispose Howard, togliendosi il blocchetto dal taschino. Tra tre ore sarà tutto finito, pensò. Poi prese un respiro profondo e si avvicinò al tavolo.

Cassy non voleva partire. Succedeva spesso nell’ultimo periodo. Il meccanico da cui l’aveva portata l’ultima volta gli aveva detto che quello era “un catorcio sporco e cigolante”. Poi l’aveva sollevata con uno strano macchinario, l’aveva studiata ed aveva aggiunto che “non ci puoi tirare via neanche qualche pezzo di ricambio: le assi sono tutte marce, le sospensioni sono andate a puttane, i freni non sono a norma, la marmitta e arrugginita e bucata. Se dentro è messa come fuori, ragazzo mio- e gli aveva poggiato una manona grossa, piena di peli e macchiata di grasso su una spalla- l’unica cosa che puoi farci è portarla dallo sfasciacarrozze. Ti potrebbe dare anche venti o trenta dollari per tutto questo ferro”. Lui aveva sorriso, aveva detto qualcosa e poi aveva chiesto se poteva fare una telefonata. Quindici minuti più tardi era arrivato Trent Morgan, avevano spinto Cassy fuori dall’autofficina, l’avevano legata alla macchina di Trent e l’avevano riportata a casa. Dopo due settimane aveva capito perché si era fermata: un paio di grossi cavi si erano fusi, avevano fatto saltare altri cavi che avevano bruciato la batteria. Aveva speso quasi tutto uno stipendio per ricomprare la batteria e tutti i cavi e le prese e i fili e gli impianti che servivano, e ci aveva messo quattro giorni per montare tutto. E adesso non funzionava bene: la batteria si caricava pochissimo, si scaricava subito e quindi, almeno una volta su tre, si spegneva.
“Avanti, Cassy, muoviti! Fallo per me” la pregò Howard mentre girava la chiave nel quadro e stringeva il volante. Cassy rimase ferma, si accesero soltanto le luci di posizione.
“Ah, fai così? E allora VAFFANCULO!” e sferrò un pugno al cruscotto. L’autoradio si staccò dal vano e si portò dietro un grumo di fili e di materiale elettrico. Howard li guardò. Era proprio una giornata di merda.

Jemie aveva deciso che non voleva mangiare i broccoli. E non aveva deciso semplicemente di lasciarli nel piatto, vicino al purè e al roastbeaf. No, aveva deciso che doveva metterseli in bocca, masticarli un po’, sputarli e dire che le facevano schifo.
“Adesso basta!” aveva sbottato suo padre, al terzo sputo di sua figlia.
“Mangia tutto quello che hai nel piatto oppure, per punizione, due settimane senza tv!” lei si lamentò per qualche secondo, si lamentò a bassa voce, e poi ricominciò a mangiare. Howard la guardò e sorrise: faceva la dura con i deboli, tipo con sua madre, e la debole con i duri. Nella vita, decise, si sarebbe trovata molto male. Poi tagliò un pezzo di carne, la intinse nel purè e se la cacciò in bocca. Suo padre si versò mezzo bicchiere di Diet Coke, lo mandò giù in un sorso e si schiarì la voce.
“E tu…” ricominciò, puntando il suo sguardo da giudice sul volto di Howard.
“…Hai già scelto a quale università mandare la domanda di iscrizione? È ora, no?” e rimase a fissarlo. Howard mandò giù il boccone, masticato a metà, e si pulì il viso. Non aveva ancora deciso quale università scegliere. In realtà, non aveva ancora deciso se iscrivercisi o no, all’università. Bevve un sorso d’acqua dal bicchiere, giusto per prendere tempo, e poi guardò suo padre. Gli faceva paura. Gli aveva sempre fatto paura.
“Ci sto ancora pensado…” rispose.
“…Dipende tutto dalla media. Io avevo pens…”
“Yale sarebbe una scelta…” lo interruppe suo padre. Quando parlava di Yale, l’università che aveva frequentato, gli si illuminavano gli occhi e gli si gonfiava d’orgoglio il petto.
“…Solo le menti migliori finiscono a Yale e fanno carriera. E se qualcuno ti dice che non è vero, è uno sporco bugiardo” e si mise a fissare un punto in aria, con un sorriso commosso stampato sul viso e gli occhi lucidi. Yale. A Yale non l’avrebbero mai preso.
“Ci penserò su…” rispose. Poi guardò sua sorella, lei lo guardò e tirò fuori la lingua.
“Yale è il massimo…” continuò suo padre, immerso in un’altra conversazione, forse in un ricordo.
“…Ci ho passato gli anni migliori della mia vita, in quell’università. È un luogo che ti forgia nello spirito e nel corpo. Mi renderesti un padre orgoglioso se scegliessi Yale” e si fermò perché stava per piangere. Howard annuì e prese un altro pezzo di roastbeaf dal piatto.
“Comunque…” ricominciò suo padre, tornando alla realtà.
“…Per questo week end non prendere impegni: ti porto in un posto, stiamo per due giorni. Non accetto rifiuti: è già tutto organizzato. Tu porta soltanto il sacco a pelo, un cambio di vestiti, gli stivali ed un giubbotto pesante” e tornò a mangiare. Howard voleva rispondere qualcosa ma poi ci pensò: quando suo padre diceva “non accetto rifiuti”, significava che dovevi starci per forza.
“Ok” rispose e tagliò un altro pezzo di carne. Se lo mise in bocca e guardò sua sorella: stava ridendo di lui. Senza farsi vedere da suo padre le sventolò davanti il medio della mano sinistra.

“La prossima uscita è la nostra” annunciò suo padre dopo aver superato l’ombra del cartellone verde che indicava le direzioni. Howard staccò la testa dal finestrino, cercò di aprire gli occhi e mugugnò un “Ok”. Suo padre aveva spalancato la porta della sua camera alle cinque e un quarto di mattina, aveva tirato la tenda, aperto la finestra, gli aveva strappato via le coperte e gli aveva dato un quarto d’ora di tempo per svegliarsi, lavarsi e prepararsi per uscire. Howard l’aveva guardato, le palpebre quasi incollate tra di loro ed un sogno da finire, e si era tirato giù dal letto. Quando era entrato in bagno si era sciacquato la faccia un paio di volte e si era guardato nello specchio sopra il lavandino. Forse è ancora un sogno, aveva pensato mentre si spazzolava i denti, un incubo. Strinse lo spazzolino tra i denti e chiuse gli occhi. Quando li riaprì era ancora nel bagno. Merda, aveva pensato e poi aveva sputato nel lavandino. Erano partiti alle cinque e mezza, con il cielo ancora scuro e il ragazzo dei giornali che iniziava il giro di consegne nel loro quartiere. Suo padre aveva deciso di non farlo dormire in macchina: prima gli aveva fatto un mucchio di domande, domande dettagliate a cui non si poteva rispondere solo sì o no; poi aveva fatto suonare un disco folk, lo aveva inserito nell’autoradio quando erano entrati in autostrada, ed aveva cantato, ululandole con una voce sporca e lamentosa, tutte le canzone. Quello strazio era andato avanti per quasi due ore. Avrebbe preferito aggiustare Cassy, che adesso riposava, abbandonata in quel piccolo mondo di ruggine e ragnatale e vecchi giocattoli che era il loro garage, per tutto il giorno, piuttosto che sopportare quella tortura.
“Fidati di me: ti divertirai un mondo questo fine settimana” aggiunse suo padre mentre inseriva la freccia e si spostava sulla corsia di sinistra. Howard si mise a guardare la strada. Ne dubitava ma a suo padre, quando decideva una cosa, non si poteva dire di no.

Il posto dove erano finiti, quella specie di villaggio da campeggio in cui erano arrivati dopo aver superato una città, aver lasciato la strada asfaltata ed aver percorso quasi venti miglia di sentieri sterrati, si chiamava “Deer Hunters Paradise”. Quando avevano parcheggiato il fuori strada suo padre aveva preso un respiro profondo, aveva sorriso ed aveva detto di sentirsi a casa. Howard si era guardato un po’ intorno: c’era soltanto terra, polvere rossa, un paio di montagne sullo sfondo ed una specie di casetta con i muri scrostati. Come facesse suo padre a sentirsi a casa, non riusciva a capirlo.
“Ok, ragazzo…” disse fiero, dopo essersi slacciato la cintura di sicurezza ed aver inserito il freno a mano.
“…Si comincia!” poi era sceso dal fuoristrada, si era sgranchito un po’ le gambe ed aveva iniziato a scaricare le valigie. Si erano portati lo stretto indispensabile: due sacche verde militare con qualche vestito dentro, due sacchi a pelo, un paio di cappotti imbottiti, una borraccia da due litri piena d’acqua, una borsa termica con qualche panino, un thermos di caffè e due berretti.

Cinque minuti prima delle undici, suo padre aveva montato la tenda: cinque metri di tessuto impermeabile sorretto da sei stecche e tirato da dodici corde d’acciaio. Più che una tenda da campeggio sembrava il tendone di un circo.
“E adesso andiamo a cercare Matt Ulmann!” aveva sentenziato, con il sorriso stampato sulla faccia, dopo aver ammirato la tenda per altri cinque minuti. Howard aveva sbuffato, si era rimesso il cellulare in tasca e si era alzato da quel tronco d’albero su cui era seduto. Il cellulare era l’unica cosa, l’unico confort, l’unico contatto con il mondo reale, quello che viveva a quattro ore da dove lo aveva portato suo padre, che era riuscito a portarsi. La cosa divertente era che lì prendeva pochissimo.
“Vedrai…” aveva aggiunto suo padre dopo aver bevuto un sorso dalla borraccia, aver strappato un filo d’erba ed esserselo infilato tra i denti.
“…Matt Ulmann ti piacerà. È lui che mi ha aiutato ad organizzare tutto per questa sera, per la tua gran serata!”
“Cosa ha organizzato?” chiese Howard. Suo padre lo guardò da dietro la spalla e sorrise.
“Una sorpresa!” e si girò. Howard odiava le sorprese. Stava per rispondere qualcosa ma poi ci ripensò: a suo padre non si poteva mai dire di no. Scosse la testa e strappò qualche filo d’erba. Due giorni, pensò, e tutto sarà finito.

Matt Ulmann era un omone grasso, con il naso scottato dal sole, un cappello da cowboy in testa, i denti marci e la barba ruvida. Erano arrivati a casa sua, una specie di catapecchia fatta di assi di legno sforacchiate dai tarli e qualche lamina di metallo che faceva da tetto, un quarto d’ora prima delle due. Howard aveva fame. L’ultima volta che aveva mangiato, l’ultimo pasto sostanzioso che suo padre gli aveva fatto fare, era stata la cena della sera prima.
“Per stasera è tutto pronto…” sputacchiò Matt mentre si rollava una sigaretta su quello sciancato tavolaccio attorno a cui erano seduti.
“…Questa è la mappa per arrivarci…” si tirò fuori, da una delle tasche di quel gilet logoro e ammuffito che portava sopra la camicia di flanella, un foglio unto e spiegazzato e la passò a suo padre. Aveva le unghie nere, sporche e le mani tozze e rovinate.
“…L’appuntamento e alle undici. Mi raccomando…” e lanciò un’occhiata torva e spigolosa verso Howard. Lui se ne accorse ma fece finta di niente: stava guardando l’enorme testa d’alce impagliata che troneggiava, come una specie di trofeo di caccia, sopra la poltrona davanti alla tv. Era la cosa più brutta, inquietante e di cattivo gusto che avesse mai visto. Quella casa sporca, piena di polvere, contenitori di latta e pentole bruciacchiate, poi, gli sembrava troppo il set di un film dell’orrore.
“…Non mi far fare brutte figure” e si infilò la sigaretta in bocca. Suo padre lo guardò, sorrise.
“Tranquillo…” gli rispose
“…So esattamente quello che devo fare” poi tirò fuori il portafoglio dalla tasca, estrasse due banconote da cinquanta dollari e le posò sul tavolo, a qualche centimetro dal barattolo di latta pieno di mozziconi. Matt le guardò e se le fece sparire in una tasca del gilet. Dieci minuti dopo, Howard e suo padre stavano tornando alla loro tenda.

Avevano mangiato una scatoletta di fagioli, carne essiccata ed un paio di sandwitch. A Howard non era bastato come pranzo, a suo padre sì. Il pomeriggio lo avevano trascorso a girare per il bosco. Suo padre gli aveva tastato le braccia, lo aveva fatto arrampicare sugli alberi, gli aveva fatto spaccare la legna, strappare le erbacce e fare le flessioni. Howard non aveva capito a cosa servisse, ma non aveva fatto domande: a suo padre non si facevano domande. Alle sette di sera avevano acceso il fuoco e mangiato altre scatolette. Un’ora dopo cena, suo padre gli aveva spiegato come si usava il coltello a serramanico, come si impugnava per tagliare bene e gli aveva fatto vedere i punti del collo in cui infilare la lama per uccidere qualcuno. Howard aveva ascoltato in silenzio, con le ossa indolenzite e lo stomaco che borbottava ancora per la fame. Alle nove era andato a letto, suo padre lo aveva guardato mentre si infilava nel sacco a pelo, ci si era infilato vestito, aveva sospirato e poi si era messo a guardare la luna. Howard si era addormentato con la testa appoggiata su una delle sacche che avevano portato. Prima di addormentarsi aveva pensato al culo di Loretta Sanderson, la capo cheerleader, ed aveva sorriso. Mezzo’ora dopo, suo padre lo aveva svegliato
“Cosa c’è?” aveva borbottato mentre usciva da quella specie di dormiveglia in cui era scivolato
“Dobbiamo andare! Sbrigati!” rispose suo padre con un filo di voce.
“Andare dove?” chiese Howard stiracchiandosi e tirandosi fuori da quell’involucro caldo e puzzolente che era il suo sacco a pelo.
“È una sorpresa” rispose suo padre. Poi prese il coltello a serramanico e lo passò ad Howard
“Questo ti servirà. Sbrigati, ti aspetto fuori” ed uscì dalla tenda. Howard guardò il coltello e poi l’apertura della tenda. Howard odiava le sorprese. Poi si alzò ed uscì.

Suo padre controllò di nuovo la cartina, si fermò, si leccò un dito, lo espose al vento e scelse di prendere un sentiero a sinistra. Howard lo seguì. Gli facevano male le gambe e si sentiva le braccia e il petto indolenziti. Dove cazzo mi sta portando questo vecchio rincoglionito?, pensò mentre evitava che un ramo gli cavasse un occhio, A caccia? A prendere i funghi? E lo dobbiamo fare proprio di notte? Gesù, io quest’uomo non lo capisco!
“Ok, ci siamo quasi…” disse suo padre con voce sicura
“…Ancora qualche metro e siamo arrivati” Howard lo guardò. Aveva sonno e gli facevano male i talloni.
“Papà, ma dove stiamo andando?” gli chiese Howard. Suo padre si girò, il riflesso della torcia gli si proiettava sul viso
“Ti ho mai raccontato…” iniziò a rispondergli
“…Di come mi sono fatto la cicatrice sul braccio destro?”
“Sì, me lo hai raccontato cento volte: te la sei fatta a Yale, durante un allenamento di scherma” sbuffò Howard. Era una storia che suo padre gli aveva raccontato cento volte.
“Beh, diciamo che non è la vera storia…” gli rispose lui. Howard lo guardò. Non riusciva a capire perché, ma aveva paura.
“…La vera storia è che questa cicatrice me la sono fatta PRIMA di entrare a Yale” e si fermò. Howard continuò a guardarlo con faccia stralunata
“Non ti seguo” gli rispose
“Spiegami” e poi scacciò una mosca che gli si era posata sul braccio. Suo padre prese un respiro profondo e poi ricominciò:
“Per entrare a Yale, c’è un test d’ingresso, giusto?” gli chiese.
“Sì, lo so: devi scrivere la tua autocandidatura, presentare il tuo foglio studi, passare la prima selezione, fare il colloquio e sperare che ti prendano. Ma questo cosa c’entra con la cicatrice?” chiese Howard. Suo padre gli sorrise, era un sorriso agghiacciante.
“No, in realtà c’è un altro modo per entrare a Yale…” gli rispose e poi si girò, allungò una mano versò Howard e lo trascinò dentro un cespuglio. Venti secondi dopo, erano fuori, davanti ad una piana. Howard aprì gli occhi. Davanti a lui c’era uno spiazzo di sabbia rossa illuminato dalla luce di quattro torce. Sulla sabbia, tracciata con una strana vernice bianca, la forma di un cerchio. Attorno al cerchio c’erano una ventina di persone: padri e figli. In lontananza, seduto su una sedia di plastica, che fumava una sigaretta, c’era Matt Ulmann.
“…Combattimento corpo a corpo. Uno contro uno. Chi vince, passa la prima selezione per entrare a Yale” finì suo padre. Howard si girò verso di lui, ingoiò il groppo che aveva in gola
“E chi perde?” gli chiese, balbettando con un filo di voce
“Chi perde rimane qui. Io scendo, ti aspetto giù. Non ti sto dicendo di riuscirci, ti sto dicendo di provarci. E non accetto un no come risposta” e poi si allontanò. Howard lo guardò avvicinarsi a quel ring, poi guardò il coltello a serramanico. Cassy, l’unica cosa a cui pensò era la sua macchina. Poi si incamminò, seguì suo padre. Non voleva farlo, ma lui non accettava mai un no come risposta. E poi, tentar non nuoce, giusto?